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La storia di Vito Cristofaro, partito da Soverato e ora direttore d’orchestra all’Università di Vienna
UNA VITA PER LA MUSICA

Sembrò che ebano e avorio si animassero, come in un film della Disney, quando le dita affusolate del piccolo Vito cominciarono a rincorrersi sempre più leggere e sicure sulla tastiera di quel primo pianoforte. Marca cinese, costò a papà Domenico, operaio delle Ferrovie oggi in pensione, un occhio della fronte: seicentomila lire. Erano ancora soldi all’epoca, nei primi anni ‘80. Ma furono una benedizione, perché a poco a poco nacque in quella casa affacciata sul golfo una misteriosa armonia col mare: era come se le note, finalmente libere, presagendo e festeggiando in anticipo una carriera prodigiosa per quel piccolo musicista, levitassero dallo strumento. Sorridendo, inchinandosi, fondendosi poi a metà strada col suono della brezza e quel mite lamento della battigia. Lì davanti un azzurro sconfinato. D’inverno, quando tutta quell’acqua faceva la voce grossa, minacciando i fabbricati, il piccolo maestro si alzava di notte a indagare nel buio. Rifletteva che tutto, sì, la musica, quel mare, il cielo, dovesse in qualche modo concorrere allo spartito della segreta sinfonia che muove il mondo. Quel bimbo che guardava l’orizzonte e imparava a conoscere Puccini, Mozart, Beethoven, si chiama Vito Cristofaro, oggi ha 32 anni. È nato a Soverato, in quella casa sullo Jonio con un cortile e un piccolo giardino di nespole e limoni. Sono la passione di mamma Natalina, casalinga, occhi grandi e cuore rivolti ai quattro figli, Barbara, Santina, Vito e Gerardo. Vito, il penultimo, alla fine si è laureato direttore d’orchestra. Non dietro l’angolo, ma all’Università della Musica di Vienna, dove molto tempo prima di lui hanno studiato maestri come Claudio Abbado o Zubin Metha. Unico europeo del suo corso, Vito, per sei anni con i suoi colleghi ha vissuto tra le magiche e severe stanze di questa prestigiosa “accademia militare” musi - cale. Prima di Vienna aveva già fatto il giro di mezzo mondo, suonando tra Italia (al Festival di Spoleto), Stati Uniti e Canada («con l’Italian Chamber Orchestra di Soverato e con l’orchestra della Provincia di Catanzaro », sottolinea orgoglioso), e poi – dopo la laurea in direzione – tra Corea (orchestra del Teatro Regio di Parma), Giappone (Vienna Valzer Orchestra), Inghilterra e Australia (in duo con il violinista Alessandro Mingrone). Nella capitale austriaca, dove ormai si è stabilito, sarà impegnato fino al 25 maggio con il “Mozart e Salieri” di Rimsky - Korsakov (quello, per capirci, della magica “She razade”), con testo del grande scrittore russo Alexander Pushkin e più in là, a luglio, con la Carmen di Bizet. «E poi c’è una notizia fresca: «sarò maestro collaboratore e direttore al Teatro di Innsbruck, a partire da settembre», annuncia, con aria sbarazzina, chiedendosi se sia proprio il caso di scriverlo visto che non ha ancora firmato il contratto. Nottate, studi, musica, viaggi. Ma tutto quell’azzurro che sembra quasi bussare ai vetri della casa sul mare “alla galleria” (il quartiere, e la strada, si chiamano così per via del traforo sulla ferrovia che fila tra le costruzioni e la spiaggia), il suo primo pianoforte, il violino, Vito non li dimentica: «Suonare il violino guardando il mare, che grande emozione. Mi perdo nell’orizzonte mentre le melodie fuoriescono dallo strumento. Purtroppo lo stesso non posso fare con il pianoforte, riesco solo a intravederne un pezzetto. Il mare mi manca molto. Adoro il mare, mi regala un senso di libertà e per questo mi piace suonare guardando questo spazio infinito davanti a me». Quella distesa azzurra è la stessa che Vito osservava con la testa poggiata al finestrino del pullman che lo portava a Catanzaro a studiare pianoforte. Prima una volta alla settimana, poi ogni santo giorno. Con il sole o con la pioggia, sotto i quaranta gradi di luglio o con in testa il cappuccio per coprirsi dal freddo e dal vento che soffia sempre così forte da quelle parti a ogni stagione. Lui lo chiama “odore”, per delicatezza, ma il puzzo di quei pullman ancora se lo ricorda: «Mi faceva sempre stare un po’ male, e all’inizio avevo paura, andare fin lì per me era come un viaggio in una terra lontana». Seduto al suo posto, tutto solo se ne stava immobile con in braccio la borsa di plastica nera e dentro i libri della musica. La passione, come tutte le vere grandi passioni, era scoppiata all’improvviso. «Avevo più o meno sette anni e ricordo che in quel periodo mandavano in televisione una serie sulla vita di Giuseppe Verdi. Io restai così affascinato che dissi subito a mio padre: “Papà, voglio diventare come Giuseppe Verdi!”». Domenico saltò dalla sedia. Ciascuno ha un suo sogno che accarezza per tutta la vita, senza mai realizzarlo, ma gustandone il pensiero tutti i giorni. E quello del papà operaio era di fare il musicista. «Lui – rivela il figlio –ha un mandolino che ha imparato a suonare da autodidatta, però lo tira fuori ogni cinque o sei anni. Ci aveva già provato a chiedere alle mie sorelle più grandi se volessero intraprendere lo studio della musica, ma senza successo. Perciò fu molto felice della mia inedita richiesta». Il tempo di organizzarsi e in casa Cristofaro entrò il quinto figlio, quel primo pianoforte costruito in Cina «di colore chiaro, tra il marrone e il giallo, mio padre lo comprò praticamente quasi subito dopo che iniziai a studiare». Da allora Domenico si divise tra arnesi, rotaie e la musica, diventando di fatto “manager” del piccolo Verdi. Occorreva un maestro, e chi meglio del signor Umberto Pacicca, buonanima, direttore della banda di Soverato Superiore, poteva dare il “là” a Vito. «Era un clarinettista ma insegnava ogni tipo di strumento, dal flauto alla fisarmonica, dalla chitarra al pianoforte. «Ovviamente – racconta Vito – da lui non potei apprendere la vera tecnica pianistica, però era molto severo nel solfeggio e nella teoria nelle quali mi diede delle solide basi. Il repertorio che suonavo all’epoca era nazional - popolare, Valzer dalla Vedova allegra, Marcia alla turca e, il mio pezzo forte, le Variazioni sulla Mazurka di Migliavacca, scritto per fisarmonica, ma che io eseguivo al pianoforte. In quegli anni miopadre mi portava a tutte le competizioni e rassegne musicali della zona. Dal “Fiore di pietra” di Petrizzi, al “Trampolino” di Chiaravalle. Ogni volta tornavo a casa con coppe, coppette, medaglie, diplomi». Fu un maestro romano che teneva corsi di perfezionamento in Calabria a consigliare poi alla famiglia che la soluzione più giusta per quel piccolo talento sarebbe stata quella di iscriversi al Conservatorio. «Disse che forse era il caso di andar fuori – ricorda il signor Domenico – ma ci sembrò un passo un po’ azzardato, fu così che lo stesso maestro fece il nome di una sua allieva che viveva a Catanzaro». Per la mamma tutte le volte era una gran pena vedere andar via il piccolo Vito. «Spesso dovevo chiamarlo urlando dal balcone, mentre era giù in spiaggia a giocare a pallone con gli amici – dice emozionandosi Natalina –e lui sbuffando perché poverino si divertiva un mondo, ma poi con senso di responsabilità correva a prendere la sua roba per partire». E «ogni santa volta i miei amici si arrabbiavano con me perché li lasciavo sempre a partita iniziata …», le fa eco Vito. Da “grande” il futuro direttore d’orchestra si iscrive alla Ragioneria. Ma la grande musica era la sua vita. Studiava e cresceva, in altezza e bravura. Una sera d’estate un blitz di papà Domenico segnò forse una tappa fondamentale per Vito. Era in programma un concerto in Municipio: «Mio padre chiese ai due artisti se durante la pausa potevo eseguire un pezzo al pianoforte. Era presente il maestro Froio, aveva fondato da qualche anno una scuola di musica a Montepaone. Quando mi sentì suonare mi propose di andare a studiare lì. E così fu. Era organizzata in maniera rivoluzionaria per quei tempi. Tutti studiavano uno strumento ad arco e suonavano nell’orchestrina. Si faceva musica d’insieme, canto, teoria. Era un po’ come un conservatorio in miniatura. Mi propose di studiare un altro strumento a parte il pianoforte. Io gridai subito “la tromba!”, ma lui insistette con il violino. Io, che un violino lo avevo visto forse in televisione, ero un po’ restio ma poi accettai. Lo ringrazio tutt’ora per quel consiglio, perché il violino è uno strumento meraviglioso che mi è stato poi molto utile anche nello studio della direzione d’orchestra». Nel ’97 arriva il diploma “cum lode” in violino e pianoforte al conservatorio, quello vero, di Vibo Valentia, dove Vito andava soltanto per dare gli esami. Oggi che gira il mondo, tutto questo sembra accaduto un secolo fa. Il primo approccio con Vienna fu quando il piccolo futuro maestro scoprì l’amore. Era cotto di una ragazza austriaca in vacanza proprio a Soverato, «con cui avviammo una corrispondenza intensissima, era ancora il periodo delle lettere scritte a mano su un foglio di carta! Dio mio, sembra la preistoria ma che emozione era …». Il primo viaggio, poi un altro, quindi la decisione di tentare il grande salto. «Era il 2002 ed io avevo maturato da qualche tempo l’idea di voler studiare direzione d’orchestra dopo essere stato per vari anni violinista in diverse orchestre, Cosenza, Spoleto, Roma, ed è così infatti che mi sono avvicinato e appassionato alla figura del direttore. Ero affascinato – spiega – dal vedere come i diversi direttori interpretavano le opere o le sinfonie, e come fosse possibile che uno stesso pezzo potesse cambiare in base a chi lo stesse dirigendo. Cominciai a sentire la voglia di poter esprimere anch’io le mie idee musicali di fronte ad un’orchestra». Vienna, un mito quasi inaccessibile: «L’esame di ammissione qui è molto selettivo, soprattutto la parte relativa alle prove di “orecchio”, bisogna anche saper un po’comporre, cantare, suonare il pianoforte ad un buon livello e ovviamente possedere già una discreta tecnica direttoriale. Questo solo per essere ammessi». Su un centinaio di candidati che si presentano ogni anno da ogni parte del mondo la scelta cade, infatti, su un massimo di dieci. Tra questi, anche Vito. Lui non si sente un genio. È rimasto il ragazzo che giocava a pallone sotto casa. Con la garbata umiltà che tocca tutti i grandi, confida di aver dovuto combattere anche e soprattutto contro se stesso e i suoi fantasmi. «Questi ultimi cinque anni sono stati fondamentali per la mia formazione, sia musicale che umana. Mi hanno aiutato a sconfiggere molte paure che mi portavo addosso. Un direttore deve essere necessariamente una persona determinata, capace di prendere decisioni per altre cento persone, assumersene la responsabilità e difendere, qualora ce ne fosse bisogno, la sua idea, convincendo gli altri che sia la migliore di tutte». Un giovane di grande talento, solare e riflessivo. Profondo, con brio. Ma «qualche volta un po’ sbadato sì, perché mi perdo nei miei pensieri musicali. A casa dei miei – sorride –mi capitava di mettere il latte sul fuoco e poi andare a suonare e dimenticarmene. Oggi di scendere dal treno e accorgermi, appena riparte, d’aver lasciato a bordo il trolley con computer, macchina fotografica eccetera, o di lasciare lo zaino nel metrò, il bancomat inserito nella macchinetta per fare i biglietti... ». Piccole “geniali” sregolatezze. Divertissement che la sua fidanzata, Marija Jokovic, serba di Belgrado, cantante lirica, mezzo soprano, adora. «Ci siamo conosciuti qui a Vienna durante la messa in scena de “La clemenza di Tito”, di Mozart. Avendo studiato italiano all’università, lei parlava già correntemente la nostra lingua. Ci scambiavamo sms in italiano antico … io ero il suo “messere”, lei la mia “madamigella”… ». Come poteva essere altrimenti. Il maestro non ha, invece, un suo autore del cuore: «Diciamo che ogni volta che studio, dirigo o suono un determinato compositore mi innamoro di lui, ma se fossi costretto ad una scelta direi Puccini, Beethoven, Mahler». Ma al concerto di laurea, a Vienna, ha diretto l’Orchestra della Radio Austriaca con la “Grande Ouverture du Roi Lear”, di Hector Berlioz, compositore francese dell’800 che si ispirò all’omonimo dramma di William Shakespeare («un pezzo pieno di contrasti e di follia», sottolinea). «Ritrovarmi lassù – dice – non mi ha fatto tremare le gambe come avevo immaginato, al contrario, ho provato una sensazione di naturalezza, come se fosse stata la sala dell’oratorio a Soverato. Forse è perché l’ho vissuta come una specie di trans». E come sotto incantesimo il piccolo Verdi calabrese è salito con frac, bacchetta in mano sul podio, inchinandosi davanti alla platea, nella mitologica Sala d’oro del Musikverein, quella del Concerto di Capodanno. Così papà Domenico e mamma Natalina (lei non aveva mai preso un aereo in vita sua) si sono guardati “parlandosi”con gli occhi, come forse non avevano mai fatto in tanti anni di matrimonio e sacrifici. Pensando, in quell’istante, la stessa cosa: guarda Vito dove è arrivato. (Valerio Giacoia - quotidiano della calabria)

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ELISABETTA GREGORACI - SPETTACOLO


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