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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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LA VERA STORIA DI EUTIMO
Eutimo, figlio di Asticle di Locri, o, secondo il mito, del fiume Cecino, visse davvero, nel V secolo, e vinse tre Olimpiadi nel pugilato; la seconda, sfuggì alla frode sportiva di Teagene di Taso: tutto il mondo è paese, e niente di nuovo sotto il sole. L’ultima vittoria è del 464 a. C. Gli venne eretta una statua ad Olimpia, di cui rimane, conservata in quel Museo, l’iscrizione e il nome dell’artista, Pitagora di Samo, omonimo del molto più antico filosofo. Anche nel Museo di Locri leggiamo un frammento con il nome di Eutimo. Ne parlano Strabone, e, più diffusamente, Pausania.
Venerato come un eroe, una cosa che accadeva spesso agli atleti più segnalati, la sua vicenda umana si intrecciò con la leggenda, e venne fatto combattere vittoriosamente con il demone di Temesa. Questa città, cantata nel I libro dell’Odissea come produttrice di stagno, fu fondazione degli Ausoni, poi conquistata dai greci Etoli guidati da Toante. Quando Ulisse vi scese (per inciso, questo è l’unico sbarco del girovago re dalla nostre parti: tutti gli altri, bufale!), un suo marinaio, Polite, usò violenza ad una fanciulla, e, manco a dirlo, venne subito ucciso. Ma la sua anima perseguitò gli abitanti, finché non decisero di abbandonare la loro terra e l’Italia. L’oracolo del dio lo vietò, ordinando di consacrare e sacrificare ogni anno a Polite una giovane. Secondo altri, il nome del demone era Lica, che può avere a che fare o, genericamente, con il lupo (“lukos”), di cui infatti vestiva la pelle; o con i Lucani. Altri lo chiamavano Alibante, che significherebbe uomo morto.
L’orrenda usanza continuò fino all’arrivo di Eutimo, che sconfisse il demone, sposò la fanciulla, e, secondo un racconto, viveva ancora a Temesa cinquecento anni dopo. Un intreccio di storia e mito, non raro nella cultura greca; e che, leggiamo in Pausania, cela un’espansione politica e militare di Locri nel Golfo Lametino e fino a Temesa.
Questa, in estrema sintesi, fu la storia di Eutimo. Ahimè, in veste di filologo classico, debbo informarvi che con noi di Soverato il vecchio Eutimo non c’entra proprio per niente. Era di Locri, e, a voler credere fosse figlio non di un uomo, ma del fiume Cecino come la dannunziana Mila fu figlia del fiume Iorio, il Cecino non è l’Ancinale, bensì un corso d’acqua al confine tra Locri e Reggio. Lo ricorda Tucidide. Nel XVI secolo, una lettura errata di Plinio il Vecchio, “Caecinus” in luogo di “Carcinus”, generò la confusione, che, nel tempo, divenne una convinzione, e giunse fino agli anni 1980 e alla prima serie dei Giochi.
Nemmeno è probabile che il valoroso pugile, per andare da Locri a Temesa, sia passato da qui, che era, fino al IV secolo, territorio soggetto all’ostile Crotone. Locri aveva fondato le subcolonie tirreniche di Ipponio (Vibo V.) e Medma (Rosarno), e quella aspromontana pare la strada più ovvia, per un locrese che volesse raggiungere l’altro mare.
Pagato il mio tributo alla deformazione professionale del classicista, è ora di iniziare a giocare. Impipandocene dunque della filologia e della storia, adottiamo Eutimo come soveratano: è o non è Soverato un paese di antica, recente e futura immigrazione? Benvenuto anche a lui, dunque, e ai Giochi di Eutimo: divertiamoci.
Divertiamoci, ribadisco. Tutto il resto, sono quelle contorplicazioni mentali che in molti, troppi aspetti della vita sociale ammorbano Soverato. Non è vero che Eutimo porterà turisti a battaglioni affiancati, arricchirà i commercianti, farà della Perla una Superperla dello Ionio, dell’Atlantico e del Pacifico; e nemmeno spianerà carriere politiche ai presidenti megagalattici; o accrescerà, beh, diciamo creerà dal nulla, un prestigio sociale che non c’è per altri motivi. Eh, fantasie? Ma no, ne abbiamo vedute, in questi anni: presidenti che ti guardavano dall’altissimo in basso, vicini di casa che non si parlano più, amicizie rinnegate, e urla al microfono “Faremo ricorso”, tanti, tanti ricorsi: insomma, la solita figura dei perecottari. E non parliamo di soldi, quando ne corrono!
Se invece semplicemente torniamo alla definizione di gioco, e basta, ne abbiamo tutti da guadagnare e niente da perdere. Gioco è stare assieme, svagarsi, gareggiare, metterci un po’ di sano agonismo e tifo, e, la sera stessa della solenne cerimonia finale, tutti a cena assieme. Non c’è niente di più serio del gioco, credetemi.
Come si ottiene un così arduo risultato? Ma è facilissimo: basta dare ad ogni cosa l’importanza che ha, la quale in genere non è poi tanta. Anche Eutimo, secondo me, se la prese con calma: in fondo, che c’era da fare? Una scazzottata!
Ulderico Nisticò
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* Qualche lettore, non molto esperto di cose soveratesi antiche, ha chiesto chi fu mai questo fantasma del fabbro. Eccolo accontentato, traendo il racconto, e le relative riflessioni, dal romanzo “L’ospite”, Iride, Rubbettino, dello stesso Ulderico Nisticò:
Si spingono fino alla casa diroccata: - Qui chiamano le Forche, spiega Gianni, perché una volta impiccavano qui i malfattori: impiccarono anche il fabbro, Dio ce ne liberi! - e si segna.
- Il fabbro? - Gianni, come tutta la gente di paese, crede che la storia del fabbro, e ogni altra storia che sanno loro la sappiano tutti: la boria delle Nazioni, pensa il forestiero, che è solo un poco meno ridicola della boria dei dotti. Gianni insomma crede che il mondo sia tutto il suo paese.
- Il fabbro, come? Dicono che tutte le notti, dlen dlen, si sente ancora il rumore del martello sull’incudine: è il fabbro dannato che batte per disperazione. -
- E quali peccati ha commesso, compare Gianni? -
- L’oro e l’argento del vescovo, che glieli aveva dati per battere un crocifisso prezioso, e invece se li rubò, e al posto dell’oro vero ne usò uno mescolato con rame: lo vennero a sapere perché un suo nemico fece la spia. -
- Ben gli sta: un’altra volta impara. - All’ospite piace scherzare con le cose dei morti, tanto più quando vede che Gianni ha paura.
- Non tutti però la raccontano così: c’è chi dice che il fabbro non fece nulla di male, ed era un uomo retto e religioso: fu quel suo nemico che rubò l’oro e per salvarsi invece accusò lui. Allora Cicco Pietro lo fece tormentare: “Dove hai messo l’oro?”, e siccome il poveretto non lo poteva dire, finì che lo impiccò.
Questo Cicco Pietro - stavolta lo spiega - fu l’intendente del barone, ed era un uomo severo e feroce, uno dei sette Cavalieri di spada che si riunivano nella grotta in segreto; i vecchi raccontano che si approfittava per i comodi suoi, e pure con le donne: ma io non ne so niente, dato che è morto ai tempi della buonanima del nonno di mia madre. Adesso il fabbro vuole vendetta, oppure deve scontare qui il suo Purgatorio. Madonna aiutami, io al paese vecchio non ci andrei di notte per tutte le ricchezze del re. -
Gianni ha paura degli spiriti. Il suo amico, che è stato a scuola, ha sempre sentito affermare che gli spiriti dei morti non esistono, e quando uno è morto, non resta che polvere; o se mai, lo spirito è puro, lontano, separato dal mondo e dai corpi. Ma tante altre cose ha visto e sentito, che quella filosofica semplificazione gli pare l’opinione irriflessa di un bimbo saccente: e chissà se hanno ragione Gianni o Cartesio?
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