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CATANZARO - La crescita dilagante dei numeri del
diabete, in particolare del Tipo 2 è sotto gli occhi di tutti e va
di pari passo con un'altra pandemia del terzo millennio, quella
dell'obesità. La ricerca ha fatto passi da gigante negli ultimi
vent'anni, eppure i meccanismi alla base di queste due pandemie
restano ancora in larga misura sconosciuti. Ma gli scienziati non si
arrendono e, giorno dopo giorno, cercano di strappare alle cellule i
segreti del diabete. Un importante contributo in questa direzione
viene da un gruppo di ricercatori italiani che ha individuato un
'impostore' nel Dna, implicato in una forma particolare di
resistenza insulinica.
La scoperta rientra in un filone di studio molto sofisticato e
innovativo, finanziato con i fondi Telethon, ed è arrivata da un
gruppo di ricerca dell'Università di Catanzaro, coordinato dal
professor Antonio Brunetti (cattedra di Endocrinologia), in
collaborazione con il Gaslini di Genova e i genetisti
dell'Università della Pennsylvania.
La ricerca parte da lontano, circa vent'anni fa, dagli studi su un
ragazzino che aveva livelli di glicemia molto elevati, nonostante
concentrazioni di insulina circolante altissime. In questa
condizione (nota come 'insulino-resistenza'), i tessuti bersaglio
dell'insulina sembrano assolutamente 'sordi' ai comandi di questo
ormone e il glucosio resta nel sangue, anziché essere utilizzato da
tessuti quali il grasso e i muscoli.
Perché i tessuti bersaglio possano rispondere agli ordini
dell'insulina è infatti necessario che espongano sulla loro
superficie i 'recettori' per quest'ormone, le 'antenne' che
permettono alle cellule di veicolare il messaggio dell'insulina
circolante al laboratorio chimico contenuto nella cellula. Il
piccolo paziente con questa grave forma di insulino-resistenza non
aveva un problema a carico del gene codificante questi recettori, ma
le sue cellule ne erano praticamente sprovviste.
Il problema fu individuato molto tempo dopo in una proteina
particolare indicata dalla sigla HMGA1 (High Mobility Group A1) che
si comporta come un 'architetto' del Dna, nel senso che condiziona
il modo in cui la doppia elica del Dna si ripiega e si conforma. Il
ragazzino con quella strana forma di diabete era praticamente privo
di questa 'archi-proteina', fatto che condizionava la possibilità di
tradurre il messaggio di Dna nel recettore necessario all'insulina
per esercitare le sue funzioni. La sua forma di resistenza
all'insulina era cioè una 'HMGA1patia'.
Finora sono stati individuati (in tutto il mondo!) solo 4 pazienti
con alterazioni del gene che codifica l'HMGA1. Ma lo psicodramma
delle HMGA1patie potrebbe non esaurirsi tutta in un difetto del gene
per l'HMGA1. E a dimostrarlo è arrivata la ricerca italo-americana
pubblicata quest'estate su Nature Communications e condotta da
Eusebio Chiefari, Stefania Iiritano, Francesco Paonessa,
Ilaria Le Pera, Biagio Arcidiacono, Mirella Filocamo, Daniela Foti,
Stephen A. Liebhaber e Antonio Brunetti.
Anche in questo caso si è partiti da due 'esperimenti spontanei'
della natura, un italiano 45enne obeso e un ragazzino giapponese di
11 anni, entrambi affetti da diabete caratterizzato da un'insulino-resistenza
particolarmente grave. E anche in questo caso era presente un
importante deficit di HMGA1, non legato tuttavia a un difetto del
gene che codifica questa proteina. Il problema qui è stato
individuato in uno 'pseudogene' (HMGA1-p), una sorta di 'impostore
genetico' presente in elevati livelli nelle cellule di questi
pazienti, che interferiva con i meccanismi che portano il messaggio
contenuto nel codice genetico ad essere tradotto in una proteina 'in
carne ed ossa' (in questo caso il recettore per l'insulina).
Fino a non molto tempo fa gli pseudogeni (il genoma umano ne
contiene migliaia) erano considerati un po' alla stregua della
segatura in una segheria, materiale di scarto, senza alcuna
funzione. Oggi si sa invece che almeno il 20% di loro ha un ruolo
fondamentale nell'evoluzione dei mammiferi e può influenzare
l'espressione dei geni 'veri'. E questo apre la strada a nuove
possibilità di terapia. I ricercatori di Catanzaro e i loro colleghi
hanno individuato un nuovo bersaglio, per colpire sempre più al
cuore del diabete, ma tante altre malattie potrebbero condividere
questo stesso meccanismo.
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