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Carlo Emilio Gadda forse ne avrebbe ricavato un romanzo giallo. E’
abbastanza probabile che qualcuno, quanto prima, ne trarrà un film.
Di sicuro è che, sui fatti di Avetrana, abbiamo assistito in questi
giorni all’imporsi di un nuovo genere televisivo che nasce come
cronaca in diretta e che si trasforma in “fiction in diretta”. Anche
questo un bel pasticcio, o se credete, una contaminazione di generi.
Ricordiamo almeno due precedenti cinematografici illustri che ne
richiamano o ne anticipano il format: il film “Rashomon”, di Akira
Kurosawa, dove “mentre si susseguono le dichiarazioni dei
protagonisti davanti a un tribunale sulla loro versione dei fatti,
la verità anziché emergere sembra allontanarsi” (Emanuele
Sacchi); e il film “The
Truman Show” di Peter Weir che “si ispira alla moda di raccontare
la vita in televisione attraverso i
reality shows”.
Ma torniamo a “quer pasticciaccio brutto” di Avetrana. E’
incontestabile che il dato di partenza sia un fatto di cronaca. Noi
ne stiamo seguendo le varie fasi in diretta, puntata per puntata,
grazie ai telegiornali e, soprattutto, ai diversi programmi o
contenitori attraverso cui viene trasmesso: da Chi l’ha visto?, a
Porta a porta, da La vita in diretta, a Quarto grado, a L’Arena,
ecc. Quasi a reti unificate. Mai però prima d’ora la televisione ci
aveva introdotto così tanto nella sfera privata e nella psicologia
dei singoli protagonisti. Siamo andati oltre la cronaca, oltre il
fatto in sé, oltrepassando il confine dell’informazione e penetrando
nel mondo intimo e familiare della gente. Sappiamo ormai quasi tutto
di loro (persino chi lava i piatti la mattina!) di persone che fino
a ieri erano perfetti sconosciuti, e abbiamo scoperto che molti di
loro sanno fingere, recitare, mentire, già, come accade nella vita e
nelle fiction. Badate bene, nessuno di loro sembra però avere il
minimo timore di stare davanti a una, due, tre telecamere e davanti
a milioni di spettatori! I protagonisti della vicenda, i cui volti
ormai non dimenticheremo più, “appaiono” o “sono” in gran parte
tutti “toccanti” e “veri” quando piangono o si arrabbiano, o
raccontano o sono colti nella disperazione. E la sequenzialità degli
“episodi” sembra rispondere ai principi della migliore drammaturgia:
i colpi di scena si susseguono a catena e vengono calati come assi
al punto giusto; così come le sorprese, i sospetti su tutti i
protagonisti, le loro dichiarazioni, le ritrattazioni, i depistaggi,
le intercettazioni, le svolte. Insomma, una fiction in diretta in
piena regola. Ciascuno di noi spettatori è invece chiamato nel ruolo
del detective in poltrona: come in “Sei problemi per don Isidro
Parodi” di Borges, tiriamo le nostre conclusioni dopo aver ascoltato
i pareri di: sessuologi, psicologi, criminologi, investigatori,
esperti delle espressioni facciali e fisiche, avvocati, critici,
testimoni della strada, di altri “attori” della fiction, insomma, e
dopo aver acquisito i particolari taciuti e che, quando vengono
detti, sembra che illuminino per un istante la vicenda. Ma subito
dopo perdono la loro efficacia e ci fanno ricadere nel caos, nel
tormentone, rinviando alla puntata successiva. Siamo stati
proiettati nelle locations ormai diventate a noi familiari e,
purtroppo, meta di cinici pellegrinaggi: quella strada, quel garage,
quella facciata di casa con i cancelli marroni, quella campagna, il
casolare, il pozzo, il palazzo di giustizia, e poi il cimitero di
Amburgo, Milano.
Genere televisivo mediatico e a puntate, che
parte da un atroce fatto di cronaca e che assume i connotati della
fiction, girato con il sistema dei reportage giornalistici, basato
su interviste, su collegamenti in studio, su contributi di servizi
esterni, con protagonisti fino a ieri sconosciuti, spettinati e
senza trucco, dimessi e vestiti di abiti propri, con una storia
colpevole, dolorosa e drammatica nell’anima, con ambientazioni dal
vero e con niente di ricostruito scenograficamente. E tutto sulla
morte di una ragazzina e sulla tragedia di due famiglie, su cui
siamo stati capaci di inventarci un genere.
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