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La prelibata «cupéta» di Montepaone approda a Perugia all’Università dei Sapori
di Vincenzo PitaroLa «cupéta» di Montepaone, antico e prelibato dolce natalizio preparato con sesamo, mandorle e miele - che alcuni anni addietro aveva fatto il suo ingresso trionfale al Lingotto di Torino, arrivando a conquistare nella terra dei gianduiotti e dei saporelli il palato di molti esperti del settore, durante il «Gran galà del gusto» - è ora di nuovo al centro di non poche attenzioni. Questa volta addirittura da parte dell’Università dei Sapori di Perugia, fortemente impegnata nella promozione delle tipicità territoriali.
Come dire, due civiltà a confronto: quella contadina d’un tempo e quella consumistica di oggi.
Gli anni del boom economico (gli anni Sessanta, per intenderci) avevano decretato il dilagare dei prodotti industriali a discapito di quelli tradizionali. Complice lo stillicidio pubblicitario della televisione. E non solo di essa, beninteso.
La lotta impari ebbe come conseguenza la scomparsa dalla tavola (per fortuna, non dei calabresi) dei buoni sapori di una volta. Quelli fatti in casa, con ingredienti genuini.
Sapori antichi che oggigiorno tornano meritatamente alla ribalta, suscitando vari interessi.
La consacrazione della «cupeta» montepaonese, come ricordavamo, era già avvenuta alcuni anni or sono al Lingotto di Torino, nel giorno dedicato alla sezione «Dolci e pasticcieri italiani». Le valutazioni degli esperti dolciari furono più che lusinghiere, con grande soddisfazione anche degli ormai pochi maestri «cupetari» di Montepaone, che da anni producono il prodotto. In questo centro del Catanzarese, un tempo operavano i più valenti «cupetari» della regione, oggi pressoché scomparsi.
Da un po’ di tempo a questa parte, «cupetari» di professione a Montepaone non ce ne sono più. In questo comune, tuttavia, non sono poche le famiglie in cui la tradizione di ammannire la tavola con la cupeta, a Natale, sopravvive.
Ma in che modo e con quali tecniche, un tempo, si faceva la cupeta?
«Innanzi tutto», spiega qualche anziano cultore, «si doveva disporre di un paiolo di rame ben smaltato. Quindi si versavano le dosi opportune di “giuggiolena” (semi di sesamo), di farina, di miele o, a seconda delle preferenze, di vino cotto. Il tutto veniva rimestato da mani esperte finché non si fosse ben amalgamato. Raccolto con dei grossi mestoli, lo si spalmava su un’ampia spianatoia. L’amalgama, ancora bollente, veniva passato al matterello, e ben pressato; poi, coperto di farina o di due strati di ostia, lo si trinciava in sottili bastoncini». Lasciati riposare, per qualche ora, erano belli e pronti per essere gustati.
Vincenzo Pitaro |
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