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Faida dei Boschi
«In tanti ancora dovevano morire»
Il racconto del boss pentito Belnome

   


Uccideteli, uccideteli tutti. Questo l’ordine. Tanti ne sono morti e tanti altri ancora dovevano morire.

Perché dichiaratamente nemici, perché sospettati d’essere nemici o  traditori. Anche se innocenti. E di innocenti, soprattutto in Calabria, in ragione del controllo del territorio che di per sé è un affare, ne sono morti. Il racconto di Antonino Belnome è sconvolgente.
Trentanove anni, un passato da calciatore professionista e da padrino della ’ndrangheta. Padre siciliano, madre calabrese. L’infanzia l’ha vissuta - come racconta nelle memorie consegnate ai magistrati - a Guardavalle, in casa del nonno. Nell’onorata società ci entrò giovanissimo, portando in copiata Vincenzo Gallace e Andrea Ruga, i mammasantissima di Guardavalle e Monasterace, e Rocco Cristello, cugino omonimo del boss miletese assassinato a Verano Brianza il 27 marzo del 2008. Picciotto, camorrista, sgarrista. In ascesa fino alla primavera del 2010, quando gli fu conferito il «padrino», encomio per i due omicidi dei quali - da lì a qualche mese - si sarebbe poi autoaccusato. Belnome lasciò Giussano, il suo locale in Brianza, e scese fino ad una villa di Caulonia per ricevere la dote. In copiata portava Commisso, Alvaro e Iamonte; benedetto, insomma, dalla Piana, da Reggio e dalla Jonica.

«Anche questo era in lista»

Parla Belnome, parla di malavita. Parla di morti ammazzati e di morti che camminano a piede libero, almeno fino quando i carabinieri del Ros non l’arrestano. «Anche questo era in lista…», dice al procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini e al pm antimafia Alessandra Dolci. Così fa i nomi di mandanti ed esecutori materiali di diversi omicidi avvenuti lungo la fascia jonica, quelli della guerra di mafia scatenatasi al confine tra le province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria, dopo che in Lombardia vennero uccisi il boss Rocco Cristello e l’ex capo crimine Carmelo Novella. E racconta pure di quelli precedenti alla faida, orditi per punire semplici «trascuranze» o per mantenere la supremazia eliminando di chi osava violare l’ordine costituito.
Riempie centinaia di pagine, a Milano. Prima di essere messo sotto torchio dai magistrati calabresi: a cominciare dal numero uno della lotta alla ’ndrangheta, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che unitamente al collega della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, Vincenzo Capomolla, indaga sulla «faida dei boschi», così detta malgrado il sangue - in questa porzione di territorio divisa tra le province di Catanzaro, Vibo e Reggio Calabria - non scorra più, come sin dalla seconda metà degli anni ’70 fino al crepuscolo del vecchio millennio, solo in ragione di una montagna da spartire. Ora si ammazza anche in riva al mare ed i boschi rimasti fanno solo da contorno, dominati dalle pale eoliche, valicati dalla Trasversale delle Serre o costeggiati dalla Statale 106. Il nuovo business, qui, è nel vento, nell’asfalto e nel cemento, ragioni per contendersi una terra nella quale - saltato l’arbitrio del locale di Guardavalle, una volta deposto col piombo Nuzzo Novella - riesplode un odio che la pax durata pochi lustri non ha cancellato.

«Quel pentito deve sparire»

«Quando si calmano un po’ le acque questo qui è uno che deve sparire», gli avrebbero detto i capi del locale di Monasterace. Il morto che cammina è un collaboratore di giustizia, che sta nella Locride e che rischiava di arrecare ancora danni alla mala. «Mi hanno detto che era una cosa che andava rimossa perché era una cosa brutta da lasciare lì - dice Belnome -. Questa è una cosa recente. Prima volevano sistemare le cose più urgenti…».
È il 24 novembre 2010, Belnome è ormai, a tutti gli effetti pure lui, un collaboratore di giustizia. Il pm Dolci incalza: «Ci sono altri soggetti che rischiano per quanto a sua conoscenza?». Belnome risponde: «Eh, ce n’è sì in Calabria». Il collaboratore è chiaro: «Mi hanno detto che prima o poi lo faranno e se l’hanno detto, lo faranno».

Magistrati, giornalisti e politici pure?

Teme, il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, che di mezzo non ci vadano solo i malacarne: «Non so se ha mai sentito progetti di eliminazione di tutori dell’ordine, di magistrati, di giornalisti, di politici, cioè in generale», chiede al pentito, che però su ciò - riferisce - non ha mai ricevuto ordini o confidenze. Lui era al corrente soltanto dei progetti d’eliminazione degli ’ndranghetisti: «Ce n’erano parecchi in lista, ne sono morti quasi una ventina ma ne mancano all’appello». E delle presunte potenziali vittime offre un identikit sufficientemente circostanziato. La prima, la seconda e la terza, poi la quarta… «Una volta mi parlarono che andava fatta un’esecuzione in un ufficio sempre in quelle zone».
Da qui apre uno spaccato sulla guerra mafia che, dopo ventinove episodi delittuosi, dal 3 febbraio 2011 con il ferimento di Fiorito “Fiore” Procopio a San Sostene, registra - si spera - un’interruzione definitiva: «Però dopo questi arresti - racconta Antonino Belnome - dopo queste cose, un po’ le cose... Anche quell’omicidio che è successo nella spiaggia lì a Soverato, questi sono riconducibili […] nella questione Todaro, nel senso vicino ai Todaro, non era in primo piano vicino ai Gallace se no io lo conoscevo, però sicuramente era una persona che poteva dare delle informazioni e scomoda ed è per questo che è stato ammazzato».

Gli omicidi preventivi

Ciò perché - racconta il collaborante - «c’è molta prevenzione anche negli omicidi». E continua: «Cioè “Questa persona ci potrebbe dare fastidio o potrebbe dire qualche nostro spostamento o qualche nostra individuazione” e quello viene ammazzato, anche se non ha fatto niente». Quindi basta un sospetto per uccidere, anche un innocente: «Così era la questione di quello dell’acqua, la questione di Pietro Chiefari (assassinato il 16 gennaio 2010 a Davoli, ndr), la questione di Mico Chiefari (assassinato l’11 marzo 2010 a Guardavalle, ndr)».
Belnome va oltre e su Mico Chiefari, ai magistrati, racconta un «aneddoto importante». Così attacca: «Quando fu ammazzato Damiano Vallelunga (27 settembre 2009 a Riace, ndr), Domenico Chiefari andò là sopra a fargli le condoglianze per sviare un po’ e ci raccontò che li ha trovati abbastanza scossi, i fratelli piangevano, allora lui quando è sceso giù diceva, venne a parlare con noi, con […], con noi e disse “Sicuramente verranno a farmi le condoglianze anche loro a me, perché di me non se lo immaginano”. Allora cosa abbiamo fatto? Andammo nelle sue proprietà nelle vicinanze dove fu ammazzato, che lui aveva quelle... come si chiamano, quei casolari con una proprietà immensa in una vallata e io e […] siamo stati quattro o cinque giorni con lui perché lui continuava ad essere convinto che questi andavano lì a fargli le condoglianze, allora c’era la possibilità di beccarli. Io glielo dissi “Non verranno mai, nel dubbio non verranno mai”, no lui era convinto che andavano; però in quei giorni non sono andati. Anzi, io gli dissi “Non venite più qua, vendetevi gli animali perché prima o poi qua vi fanno qualche agguato”, e infatti in seguito gliel’hanno fatto. I figli poi scesero da Firenze, gli avevano detto anche loro di vendersi le bestie, ma lui se non andava un giorno lì moriva, era uno che viveva perennemente lì».

Le armi per la guerra

Il primo sangue ha iniziato a scorrere in Lombardia e quando è arrivato in Calabria non si è più fermato. Assassinati Rocco Cristello (27 marzo 2008 a Verano Brianza) e Carmelo Novella (14 luglio 2008 a San Vittore Olona), fu guerra tra il cartello a cui Antonino Belnome apparteneva, quello dei Gallace-Ruga, e la fazione Vallelunga-Sia. E per fare la guerra servivano armi, nuove, pulite e funzionali. «C’è stata una partita di armi importante - racconta al pm Dolci - fatte arrivare dall’estero tramite […] dove hanno speso 150mila euro tutti in armi e munizioni, di cui io ne ho vista una parte, in Calabria, appunto per questa faida. Non che gli mancassero, però [...] quando entrano in conflitto sono drastici».
La santabarbara proveniva dalla Svizzera tedesca e aveva di tutto: «Da fucili a mitragliatori, a pistole bifilari 9x21». E poi «kalashnikov». «Lanciamissili?», chiede il procuratore Boccassini. «Sì», risponde. E non c’era solo quello: «Poi c’erano i 308, che sono di superprecisione, che vanno a bersaglio a un chilometro, cioè armi di un certo rilievo, il proiettile è come un dito». E ancora: «Bombe a mano». Furono divise, in diversi covi della jonica e poi alcuni vennero mandati al Nord.

La lupara bianca

Belnome racconta, racconta tutto e con dovizia di particolari. Ricostruisce dettagli cruciali della guerra di mafia, a cominciare dalla scomparsa di Giuseppe Todaro, vittima della lupara bianca il 21 dicembre 2009. Fu il primo delitto dopo l’uccisione di don Damiano Vallelunga a pochi metri dal santuario di Riace. «Praticamente il gruppo Sia - riferisce ai magistrati - aveva bisogno di notizie, di sapere determinate cose dalla parte di qua, diciamo, e fece prendere un nipote dei Todaro che era abbastanza aggiornato e... e non si trovò più. Per questo poi ci fu anche la reazione dei familiari dei Todaro verso Sia, verso Vittorio Sia con un tentato... Però i Todaro sono molto vicini ai Gallace, andarono subito da Vincenzo Gallace quando non trovarono più... mi sembra che è il figlio, e Vincenzo gli spiegò bene cosa stava succedendo, cosa non stava succedendo. Allora loro hanno potuto fare mente locale e iniziarono diciamo... pigliarono posizione subito loro».
I Todaro, Domenico e Vincenzo, padre e fratello di Giuseppe, sono oggi collaboratori di giustizia, sottoposti a programma di protezione speciale come il sodale Giovanni Angotti. Erano stati tutti e tre arrestati per il tentato omicidio di Vittorio Sia. Prima davanti ai carabinieri di Soverato, poi davanti al gip di Catanzaro, Assunta Maiore, avevano ammesso tutte le loro responsabilità. La loro conoscenza diretta si ferma ad alcuni dei fatti di sangue precedenti all’omicidio del boss Sia, il quale - dopo il delitto Novella - aveva inteso mettere su un locale di ’ndrangheta autonomo da quello di Guardavalle. Un mese dopo il fallito agguato ordito dai Todaro, Sia venne eliminato comunque. Il 2 luglio successivo i carabinieri fermarono il figlio del boss assassinato, Alberto Sia, che unitamente ai sodali Patrik Vitale e Giovanni Catrambone, avrebbe consumato la sua vendetta assassinando i fratelli Grattà.

Vallelunga, Sia, quelli di Elce

Per il suo gruppo tutti coloro che dopo l’omicidio di San Vittore Olona erano rimasti fedeli alla memoria di Carmelo Novella andavano liquidati. Dice, quindi, il 16 dicembre 2010: «In Calabria loro ce li avevano dei tasselli, c’avevano Vittorio Sia, che non era poco. Vittorio Sia voi magari non l’avevate sentito nominare, ma a livello di crimine era... aveva un gruppo che non guardavano niente, quasi a livello di kamikaze. Quindi quei due di Elce di Guardavalle che si è rimpiazzato Damiano Vallelunga e non li hanno passati per novità, a parte che non potevano perché erano di Guardavalle, senza autorizzazione di Guardavalle, quelli se li sono tenuti di nascosto. Quei due fratelli lì andavano proprio a fare le azioni dalla mattina alla sera, gli bruciarono anche questo grossissimo capannone dei propri zii che lavoravano il legno perché dava fastidio al Vallelunga. Tutto l’appalto delle montagne della Serra e di... faceva il bello e il cattivo tempo, gli appalti dovevano andare a chi diceva lui».
Già, in Calabria, Novella, aveva ancora i suoi uomini: «Questi tipi... dal Vallelunga alle Serre a scendere nel Soveratese; Soveratese, dieci minuti, un quarto d’ora c’era Guardavalle. Anche se Guardavalle è un bunker che se mette una faccia nuova nel paese... A parte che è pieno di ragazzi tutti armati in giro, ma quando vedono una faccia nuova, sa là com’è? Non so come spiegarlo in un paese della Calabria... Pure il postino conoscono fino alla sua settima generazione. Cioè se mette la faccia uno che non hanno mai visto passa dei brutti quarti d’ora questo, se deve proprio andare, deve far vedere chi è. Cioè non è neanche facile andare in un paese e andare a controllare, andare a verificare, allora avete degli agganci? Bene. Perché li hanno ammazzati a Pietro Chiefari e via dicendo? Per questi scopi di prevenzione, così si fa, cioè levargli tutto il contorno magari dei Gallace, dei Sia, dei Novella, tutti i fiancheggiatori, sono quelli la forza […]».

In Calabria si uccide meglio

Tra Lombardia e Calabria, secondo il pentito, c’è però una profonda differenza. Spiega tutto il 20 gennaio 2011: «Perché tutte le persone vicine al Novella, diciamo quelle che potevano rendere delle problematiche, si trovavano in Calabria più che altro. Non guardiamo il Rispoli della situazione perché al nord è diversa l’operatività, è un po’ più difficile che in Calabria; in Calabria è molto più esecutiva la cosa. Per tanti e svariati motivi, perché c’erano dei personaggi di spicco come il Vallelonga Damiano, personaggi di Vittorio Sia, personaggi che potevano nuocere all’atto criminoso, gente operativa, gente che ha sempre fatto azioni, riconosciute tali. Rispoli (Vincenzo, capo del locale di Legnano, ndr) non era considerato di tale importanza da nuocere, c’era in programma […], c’era in programma […], questi erano in programma perché nella ’ndrangheta gli omicidi vengono spessissimo fatti a scopo precauzionale, perché un indomani potrebbero se no nuocere; essendo col Novella, un Vallelonga come te lo puoi più fidare? Un Vittorio Sia».

Un pentito «genuino»

Il suo è un racconto «genuino», evidenziano i pm di Milano negli atti relativi all’operazione “Bagliore”, che ha portato all’arresto di presunti mandanti ed esecutori materiali degli omicidi dei quattro calabresi in Lombardia: Carmelo Novella, l’ex capo del Crimine di Cirò, boss scissionista di Guardavalle che intendeva affrancare la «Lombardia» dalla «Provincia» di Reggio Calabria; Rocco Stagno, dell’omonimo gruppo originario di Monterosso Calabro che aveva assunto il dominio nel cuore della Brianza; Antonio Tedesco «l’Americano», il catanzarese che al Nord si era messo in affari col movimento terra; Rocco Cristello, il vibonese che partito da Mileto trafficava armi e droga tra Seregno e Verano Brianza. Parte dall’hinterland milanese e arriva fino in Calabria, offrendo una lettura cruda e dettagliata dell’ultima guerra di mafia. Una lettura che ora va valutata e riscontrata, affinché il sangue smetta di scorrere. Anche in Calabria.

Pietro Comito - Calabria Ora
 


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