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La prolifica penna del giornalista, scrittore e autore S.I.A.E. per la parte letteraria Vincenzo Pitaro. Leggi la sua biografia, i suoi articoli culturali, la sua narrativa, le poesie dialettali, satirico-dialettali e non, le sue pubblicazioni, la rassegna stampa, ecc. |
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La lettura? È una vitamina per il cervello Un settenario, un sonetto o qualche verso sciolto? Se qualcuno vi chiedesse a bruciapelo di dar prova delle vostre capacità mnemoniche, ricordereste almeno una poesia a memoria? Che cosa citereste? «Ognuno sta sul cuore della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera» o piuttosto «Amor, ch'a nulla amato amar perdona». Ve la cavereste insomma con l'ermetico Salvatore Quasimodo o chiamereste in causa il sommo Dante Alighieri? E se una volta dato sfoggio delle freschezza dei vostri neuroni, vi fosse domandato di esprimervi sui benefici dello studio a memoria di una poesia, che cosa rispondereste? Tutti questi interrogativi racchiudono il nocciolo di una disputa, mai risolta, sull'utilità o meno di imparare a memoria le poesie. È un dibattito che si ripropone ad intervalli ciclici, e che va avanti da quando fu deciso di eliminare dalla scuola un certo nozionismo. I propositi, almeno in partenza, erano giusti: svecchiare i programmi, stimolare la possibilità di apprendimento degli studenti, la loro capacità critica e di giudizio. È andata come sappiamo: con la poesia finita nella pattumiera e con gli studenti che arrivano alla maturità scientifica ignorando persino l'ermetismo, la corrente poetica del secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle. Non si tratta di essere un «laudator temporis acti», quanto piuttosto di affrontare il problema con un po' di logica. Le nozioni (perché solo nozioni ha sempre offerto la scuola, poi dipende dalla capacità dei singoli soggetti e dagli interessi che riescono a coltivare in privato) sono infatti un po' come i segnali stradali, che tutti hanno in odio, ma che basta non ci siano per apprezzarne l'importanza. Per accumulare nozioni, dunque, c'è bisogno di memoria, che dev'essere considerata una vera e propria facoltà dell'intelletto. «Apri la mente a quel ch'io ti paleso / e fermalvi entro; ché non fa scienza, / senza lo ritenere, avere inteso», scriveva Dante nel Paradiso. Ma la memoria ha bisogno di esercizio, training. Niente di meglio, allora, che allenarla con una poesia. «Basterebbe mandare a mente», disse una volta Umberto Eco, «una un'ottava ariostesca ogni giorno». Ma se siete proprio pigri - aggiungiamo noi - sarebbe sufficiente anche una terzina dantesca. Una pratica a cui tutti dovrebbero attenersi, un po' come le flessioni al mattino per chi vuole mantenersi in forma. La maggior parte dei giovani, oggi, non conoscono i versi della tradizione letteraria italiana, ma ricordano benissimo le strofe delle canzoni di Biagio Antonacci o di Francesco De Gregori. Il che, per carità, è lecito e va benissimo, ma certo non è proprio come passare un intero pomeriggio su un canto della Divina Commedia. C'è, più o meno, la stessa differenza che intercorre tra uno che suona a musica e un altro che si cimenta ad orecchio. Senza contare che applicarsi su un testo poetico, sforzarsi di memorizzarlo, significa esercitare quella parte del nostro cervello che non ha legami con la percezione visiva. In pratica, di quella sfera interiore, introspettiva, che è il dominio del ragionamento e della riflessione. L'esatto contrario, insomma, di quello che avviene nei giovani d'oggi, che memorizzano solo quanto viene loro suggerito attraverso le immagini, come gli slogan degli spot pubblicitari o i tormentoni del demenziale comico di turno. Comunque, a parte questo, c'è un'altra considerazione: studiare poesie a memoria serve a costruire un deposito di beni culturali comuni a diverse generazioni, ad offrire cioè ai giovani la possibilità di condividere con i loro padri e con i loro nonni uno stesso linguaggio. Ma non è solo un problema di identità culturale, c'è molto altro ancora. Mandare a mente un canto dell'Inferno, un componimento di Leopardi o quello di un autore contemporaneo, significa acquisire il senso del ritmo, affinare il gusto per una frase ben costruita, apprezzare l'associazione inedita di due parole. Significa imparare a vedere il mondo con gli occhi dei poeti, privilegiando punti di vista inusuali, che mettono al bando il luogo comune, il pensiero sciatto, la chiacchiera da bar sport o da trivio. Dell'arte di ciascun poeta, la memoria (preziosa facoltà dell'animo), tratterrà sicuramente qualcosa. E non è detto che quel qualcosa - per le strane alchimie che compongono l'uomo, per i mille sentieri che lo attraversano - non possa servire a formare le nostre coscienze. Vincenzo
Pitaro |
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