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Numero 72 - Per eventuali Commenti su questo articolo scrivere a: info@soveratoweb.it |
Papandrea e il Cristianesimo «Ernesto Papandrea non finisce mai di sorprenderci», disse alcuni anni fa Sharo Gambino. E non si sbagliò. Il poeta di Gioiosa Jonica, difatti, torna in questi giorni in libreria, non più con un'appassionante silloge di versi (in lingua o in vernacolo) ma addirittura con un denso trattato sul Cristianesimo o, per meglio dire, sul cristiano e sul suo peculiare rapporto con le «cose» del mondo terreno. Un libro, edito da «Città del Sole» di Reggio Calabria, che già dal titolo («Quale cristianesimo. Riflessioni di un cattolico del dissenso») richiama alla memoria un altro illustre personaggio gioiosano: don Natale Bianchi, il «prete scomodo», che tanto fece parlare di sé, sul finire degli anni Settanta, in Italia e nel mondo. Ebbi modo anch'io (giovanissimo) di occuparmi di don Natale in quegli anni, subito dopo la sua sospensione "a divinis", con un ampio servizio che pubblicai sul quotidiano Avanti! (diretto da Paolo Vittorelli) in data 14 luglio 1977, sotto un titolo a tutta pagina: «Vescovo e Dc dichiarano guerra al dom Franzoni del Sud». La sua tormentata vicenda (oggi, si può dire, passata alla storia) fece il giro del mondo. Venne alla ribalta della cronaca allorquando il vescovo di Gerace gli fece recapitare una lettera, ingiungendogli di lasciare la comunità San Rocco di Gioiosa Jonica, indi ritirarsi a vita conventuale. Invero, in quella missiva, si intimava al don Bianchi di lasciare entro una settimana la parrocchia, concedendogli un periodo di tempo «per un approfondimento di sicura dottrina teologica e per una riflessione spirituale, recandosi in una località o casa sacerdotale idonea». L’antifona era chiara: si preconizzava, in quella lettera, una sospensione dall’attività sacerdotale nonché l’allontanamento da Gioiosa Jonica del prete scomodo. Papandrea, in quegli anni, ancorché giovanissimo, da cattolico praticante si trovò al suo fianco, iniziando (probabilmente) anch'egli un nuovo cammino di fede. «La mia esperienza di fede liberante», sostiene infatti oggi l'autore di Gioiosa, «nasce dalle lotte sostenute assieme al prete del dissenso don Natale Bianchi e portate avanti, seguendo gli ideali e il pensiero di padre Ernesto Balducci, che mi ha incoraggiato a scrivere questo volume. Cerco, dunque, di mettere a frutto - in qualche modo - la filosofia di Dio nella vita quotidiana, con quella interiorità che si apre al Dio che verrà». Cosa rappresenta quindi la fede, oggi, per Ernesto Papandrea? «Questo interrogativo», risponde lo studioso gioiosano, «è serpeggiato tantissime volte nella mia coscienza e spesso mi sono posto anch'io la stessa domanda. Può essere un'adesione delle facoltà intellettive dell'uomo, una norma di condotta, un filosofare? Per usare l'espressione del teologo Gilson: "Filosofare come solo un cristiano può farlo: nella fede". È un comportamento dettato dal servizio di comunione con gli "ultimi" e conseguente condivisione della loro condizione di reietti, infelici e abbandonati dal prossimo, sazio d'egoismo?». - In che senso? Si spieghi meglio... «Intendo dire che la fede non può essere una mera attrazione, perché va calata come impegno nella società, al fianco dei poveri, ma anche dei cosiddetti "ricchi" o "faraoni delle coscienze" (non vorrei però essere frainteso e passare come un qualunquista di un certo sistema politico), però mai come alleanza terrena, come privilegio mondano, come tornaconto». - Cioè? «Beh, cercherò di spiegarmi con più chiarezza e in modo sintetico. La rivoluzione o è spirituale o non è affatto. Qui sta il nocciolo della fede come chiave di cambiamento dell'uomo nella sua globalità di vita. Il cristiano non segue la civiltà dei dominanti per farsi assorbire da loro. Chi sceglie il cristianesimo come testimonianza d'amore non imprigiona, si fa imprigionare per la giustizia; non condanna, ama; non giudica, comprende; non assolutizza la fede, la propone. Peraltro, il cristiano non può accettare di vivere sotto il "manto paterno" di un qualsivoglia dominio che si sostituisce alla sua coscienza, altrimenti non sarà un uomo che respira la libertà». Vincenzo Pitaro
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