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Mimmo Gangemi e «Il patto del giudice» Con il suo nuovo romanzo, appena arrivato in libreria («Il Patto del Giudice», Editore Garzanti), lo scrittore Mimmo Gangemi ci offre uno squarcio nuovo e illuminante di una trama - drammatica e, allo stesso tempo, avvincente - che ebbe inizio nel 2009 col suo primo, fortunato, lavoro edito da Einaudi: «Il Giudice meschino». Calabrese, di Santa Cristina d'Aspromonte, Gangemi - oggi narratore di grande talento - si è pure rivelato nel contempo anche una brillante firma del quotidiano «La Stampa» di Torino. Il suo recente volume, molto atteso dai lettori - sia in Calabria che su tutto il territorio nazionale e anche oltre - rappresenta, più o meno, un seguito della sua prima opera (pur sempre da riscoprire) che vide come protagonista quell'Alberto Lenzi, un magistrato - fra l'altro - con «il debole per le belle donne». Un personaggio, ovviamente, nato dalla fervida fantasia dell’Autore e magistralmente collocato al centro di una storia che - per molti aspetti - esprime l’anima vera e profonda della Calabria. - Gangemi, da «Il giudice meschino» a «Il patto del giudice»… «Sì. E, nel mezzo, "La signora di Ellis Island", una saga. Un’alternanza tra generi. Che non è casualità. Occorre al mio animo diversificare l’attività letteraria. Non riuscirei a scrivere due libri simili, uno appresso all’altro. Sembra quasi che al mio animo occorra frapporre una certa distanza dal tema appena trattato, per poi affrontarne uno nuovo o magari tornare a quello di prima, oppure alla commedia o al romanzo storico. Una rotazione che soccorra la fantasia, insomma, che la ritempri». - «Il patto del giudice», dunque, ha un impianto somigliante a «Il giudice meschino»... «Sì. Oltre a Lenzi, compaiono però anche l’amico Lucio, la bella giudice Roberta Allegra, il capobastone don Mico Rota, il circolo dei “nobili” e la carabiniera Marina». - Come e quando nacque in te l’idea di scrivere una trama come questa, a tratti intrigante e piuttosto appassionante? «Dopo "Il giudice meschino" ho capito d’essere prigioniero del personaggio: piaceva a me e piaceva ai lettori. Naturale che ci riprovassi. Ne è emerso un romanzo appeso alla cronaca. Lo spunto nasce dalla rivolta dei neri a Rosarno, dai traffici di droga nel porto container di Gioia Tauro, dall’operazione Crimine, strombazzata come grande risultato investigativo e che invece qui lascia perplessi. Ho succhiato da queste vicende e costruito intorno a delle verità una storia di pura fantasia, però credibile, verosimile, nel senso che potrebbe appartenere a questa terra, che non meraviglierebbe se si fosse già verificato qualcosa di somigliante o se si dovesse verificare in futuro». - Nei tuoi romanzi, dunque, la Calabria fa da sfondo quasi sempre? «La Calabria c’è in tutti i miei romanzi. Perché la vivo e a essa mi legano troppi ricordi, perché respiro l’aria che già fu fiato di mio padre. Ci conosciamo a fondo con questa Terra. Da ragazzo mi sono giunte le eco delle parole degli uomini d’onore, ne ho visto i gesti, le parate, la violenza, l’autorità nel sostituirsi allo Stato latitante. E ho ascoltato i caldi racconti dei vecchi contadini attorno alla ruota del braciere, ho osservato i disagi del popolo, la miseria di quanti erano padroni solo di braccia, ho pianto per la gente che emigrava a grappoli. Ho patito, pur senza subirlo, l’ingombro fastidioso dei pochi che in paese possedevano la vita dei più, e apposta alteri, boriosi, con il veleno in bocca. È da tutto questo, e dal dono della fantasia, che nascono i miei romanzi». - Bene, per concludere. Gangemi, cos’ha rappresentato per te la letteratura calabrese del '900, da Corrado Alvaro in poi, passando per Leonida Repaci e Fortunato Seminara, fino a Saverio Strati ecc.? «A parte l’orgoglio di venire figli alla stessa terra, comincia a non apparirmi un caso (ma non so fornire una spiegazione logica) che il talento letterario si sia sviluppato molto più nella nostra provincia che nelle altre. Non credo, comunque, che il mio percorso letterario sia stato influenzato dalle loro opere, né che il mio stile ci assomigli. Penso piuttosto a Gabriel Garcia Marquez e al suo "Cent’anni di solitudine", penso a Giovanni Verga». Vincenzo Pitaro
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