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Liberi Pensieri
Se la politica non
vi piace...
Si
parla molto in questi mesi dell’urgenza di ripristinare nel nostro Paese «il
primato della politica», e molti intravvedono in questa frase un desiderio di
rivincita dei partiti, dopo i duri colpi che hanno ricevuto dai tribunali, come
se da ripristinare fosse «il primato dei politici». In realtà è altro che si
deve intendere.
Che cos’è infatti l’attività politica? È l’unico
mezzo legale e non violento con cui il comune cittadino può difendersi dalla
prevaricazione delle oligarchie dinastiche o finanziarie, dalla turbolenza dei
demagoghi e dal rischio (mai del tutto escluso) che il Paese finisca nelle mani
di un tiranno; da qui la necessità che alla politica sia riconosciuto un ruolo
eminente, superiore - ad esempio - a quello pur fondamentale dell’economia.
Questo indiscutibile principio lo affermò in modo esemplare già Aristotele;
eppure nel corso dei secoli è stato quasi sempre dimenticato, anche se, per
fortuna, altrettante volte riscoperto.
Molte circostanze concorrono, quando più e quando
meno, a far sbiadire nella coscienza degli uomini il significato primo e vero
della politica. C’è, da una parte, la propaganda strisciante e ben mascherata
degli oligarchi e dei demagoghi, tutta intesa a gettare discredito sulla
politica in sé: queste persone non vogliono che i cittadini possano organizzarsi
e imprimere alla società un assetto diverso da quello che farebbe comodo a loro.
Un esempio di tale propaganda può trovarsi in quel vecchio slogan («per
governare lo Stato basta un ragioniere») lanciato in Italia nel primo dopoguerra
dal movimento qualunquista di Guglielmo Giannini.
C’è poi, ad alimentare un clima di sfiducia, il
comportamento non sempre chiaro e corretto (per non dire altro) della classe
politica. Vi sono chiari segni che è in atto un processo di disaffezione dei
cittadini rispetto alla politica (la diminuzione del numero di quelli che vanno
a votare ne è solamente un aspetto) e ora si spera di contenere, e possibilmente
invertire la tendenza, attraverso una profonda revisione dei meccanismi della
rappresentanza e degli assetti costituzionali; e di sventare così il pericolo
che la gente commetta un «errore», quello di credere che il fallimento di una
generazione di politici sia la stessa cosa che il fallimento della politica in
sé.
La ripresa del primato e dell’autonomia della
politica - ma soprattutto il recupero della fiducia, da parte dei cittadini,
nella politica, nei suoi meccanismi e nella possibilità di incidere realmente
sulle scelte politiche a vario livello - sono esigenze primarie e indifferibili.
Ed è auspicabile che i parlamentari impegnati nella non breve conclusione
dell’iter dei lavori, soprattutto in fase di emendamenti e di discussione degli
stessi, ne tengano il debito conto.
Qualsiasi riforma istituzionale rischierà di nascere
morta o moribonda se non sarà in grado di ristabilire un contatto reale con i
cittadini, se non sarà capace di liberarli da quel senso di frustrazione che si
sviluppa in loro dalla più o meno realistica convinzione della inutilità di
esprimere, e quindi far valere, le proprie opinioni. In altre parole, qualsiasi
riforma rischierà di essere destinata al fallimento se non saprà ridestare
l’interesse per la politica e farle ritrovare la sua centralità.
Che
cosa sia la politica è tema dibattuto fin dall’antichità. Fu Aristotele a
diffondere il concetto con un’opera intitolata, appunto «Politica», che è
passata alla storia come il primo trattato dedicato all’arte o alla scienza del
governo e che, per molti secoli, ha condizionato tutti i discorsi in materia. Il
filosofo greco - parlando dell’uomo come «animale politico», come essere vivente
in una simbiosi con la polis - ne individuava un connotato essenziale: l’uomo è
tale in quanto vive, opera, si identifica, addirittura, con la comunità. Ma il
discorso del pensatore greco era ancora condizionato da una visione, per così
dire, filosofica e finalistica della politica e della attività politica. Secoli
dopo, nel pieno fulgore del Rinascimento, Machiavelli, col suo splendido saggio
dedicato a «Il Principe», aprì una strada nuova rivendicando l’«autonomia» e la
«centralità» della politica. In altri termini, il segretario fiorentino -
presentando la politica come diversa e autonoma da religione e morale, come
espressione di proprie leggi, come causa generatrice dei governi e delle
modalità del governare - apriva la strada alle concezioni moderne della politica
e si conquistava di fatto il ruolo di precursore o fondatore della «scienza
politica». A ben vedere, la politica, nella visione machiavelliana, non era
tanto una scienza del governo propriamente detta o una disciplina volta ad
analizzare la natura, le funzioni, le partizioni dello Stato e via dicendo, ma
piuttosto una modalità di manifestazione del comportamento umano, visto nel
rapporto mezzi-fine, o, più esattamente, nel problema della congruità dei mezzi
da usare rispetto ai fini da conseguire. l’«homo politicus» - così come sarebbe
accaduto in seguito all’«homo economicus», grazie alla teorizzazione degli
economisti classici - acquistava così una precisa fisionomia e rimaneva
codificata l’essenzialità della dimensione politica per la natura umana.
Montesquieu, il grande autore di quel vero e proprio caposaldo della
speculazione politica che è «Lo spirito delle leggi» (al quale si deve la
codificazione dell’ormai classica tripartizione dei poteri: esecutivo,
legislativo e giudiziario) e, con lui, il costituzionalismo liberale, prima,
così come i teorici della democrazia dei secoli diciannovesimo e ventesimo poi,
hanno rappresentato altrettante tappe di un itinerario speculativo che non
soltanto ha confermato la politicità della natura umana, ma ha finito per
mettere in luce l’esistenza di un nesso profondo fra politica e prassi
democratica, di cui il cittadino diventa il tramite privilegiato.
Se il cittadino rinuncia alla politica, nella sua
accezione più vasta, rinuncia a una parte di se stesso, se abbandona l’idea
della possibilità di una partecipazione attiva, attraverso i meccanismi tecnici
all’uopo creati, alle scelte politiche, contribuisce a de-
terminare una situazione di profonda crisi del Paese. La politica non è soltanto
coessenziale alla natura umana, ma è anche uno strumento di tutela del cittadino
contro il prevalere di forze e gruppi di pressione di varia natura (a cominciare
da quelle economiche) e contro la snaturamento dell’equilibrio fra i poteri. È
illusorio e fuorviante pensare che la «tecnocrazia», quale che sia il suo modo
di manifestarsi, possa sostituirsi alla politica in funzioni, in compiti, in
modalità operative che non le sono proprie. Le élite tecniche possono anche
coincidere, talvolta, con le élite politiche, ma non possono e non debbono
prenderne il posto, pena lo snaturamento della politica, che non e solo ed
esclusivamente tecnica, ma anche capacità di valutazione delle più diverse
situazioni e, al tempo stesso, capacità di adattamento alle circostanze e di
mediazione fra posizioni e interessi confliggenti. Nell’attuale società di
massa, profondamente segnata, anche a livello internazionale, da una
percettibile crisi delle ideologie, da una strisciante crisi dello Stato, da una
latente crisi della nazione e dell’idea di nazione, la politica potrà assumere
forme e contenuti nuovi, forse diversi, rispetto a quelli del passato, ma non
potrà e dovrà scomparire. Sia gli uomini politici (coloro, cioè, che, per usare
una celebre espressione di Max Weber, mutuata dal titolo di un suo saggio,
guardano alla «politica come professione»), sia i cittadini comuni, debbono
tenere presente la necessità di far recuperare alla politica la centralità che
le compete. I primi, attraverso lo studio, l’elaborazione e la proposizione di
riforme istituzionali congruenti con le trasformazioni e le sfide del tempo che
stiamo vivendo; i secondi, attraverso il recupero di una volontà di
partecipazione, libera e responsabile, nel rispetto di regole e procedure, al
momento delle scelte e delle decisioni collettive.
Vincenzo Pitaro
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