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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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IL MIRACOLO SCONOSCIUTO DI MONTAURO
Il 6 febbraio e il 27 luglio di ogni anno, durante i festeggiamenti del santo, il celebrante che si reca processionalmente dall’altare maggiore a quello di san Pantaleone, e apre il tabernacolo con la sua chiave – ne ha un’altra il sindaco, un’altra la confraternita, serrature diverse, quasi a voler eliminare ogni sospetto di dolo -, aperta dunque la teca, prende in mano l’ampolla, e questa mostra il sangue liquefatto e vivo. Non credo si siano mai compiute analisi, non so di studi; ma l’ho visto con i miei occhi, e ci devo credere. Chi ha fede, vede in questi segni il mistero della mano di Dio; chi non ce l’ha e, poveraccio, si pensa bisnipote di uno scimmione, si ricordi almeno dell’aureo detto di Shakespeare: “Ci sono molte più cose in cielo e in terra di quante ne possa sapere la tua filosofia”. Ma il peggio non è che ci si creda o non ci si creda: è che non lo sa nessuno, e i pochi che ne sanno non gliene importa niente! A Napoli, per un simile prodigio di san Gennaro, si sconvolge la città. Anche il nostro miracolo è di origine napoletana, dono ad un dotto ecclesiastico di Montauro, don Carlo Barberi, e condotta con solennità in chiesa nel 1753. Un affresco mostra, con questa data, quasi un film: l’arrivo di un galeone sulla spiaggia; lo sbarco della reliquia; la solenne scorta di sacerdoti e soldati in alta uniforme; i tiri festosi a salve dei cannoni; la processione dalla chiesa alla grangia di Sant’Anna, che possiamo vedere com’era allora, integra, poi devastata dal terremoto e dall’abbandono; l’ingresso in chiesa. Grandi cose: ma noi Calabresi siamo troppo più bravi a piangerci addosso o a dar retta a qualche meschino pettegolezzo, che a dare giusta gloria ai nostri luoghi e ai nostri uomini, persino ai nostri miracoli. * * * E anche la cornice dei due prodigi annuali meriterebbe maggiore attenzione. È un complesso grandioso, la cui possanza di strutture murarie pare sproporzionata alla funzione di luogo di culto, e dà piuttosto l’impressione di essere stata una fortezza, posta com’è in vista del mare. Vanno studiati gli splendidi ornamenti dell’interno, in particolare gli affreschi. Quello del coro, appare di mano raffinata di artista; un altro, quello di cui facevamo cenno, è più popolare. Montauro, la Mentabrion dei Bizantini (ma l’avrebbero pronunziata “mentavrion” o “mentaurion”, quasi il nostro “Mantraru”), fu un borgo – castello, e fece parte della donazione del gran conte Ruggero a san Bruno (altro che eremita!). Fortificare, a quei tempi, era necessario: la stessa Certosa antica era circondata da torri e mura. Del presidio si fece poi una chiesa: quando e perché e da chi, sarebbe un ricco campo di studi. I Certosini, e più ancora i Cistercensi che dal 1192 al 1513 possedettero Santo Stefano del Bosco, fondarono grange, i conventi–fattoria: nei loro feudi di Montauro, Montepaone e Gasperina, sorsero Sant’Anna, il Cece, la Finibus Terrae, San Nicola; vi si costruirono mulini e altri opifici ad acqua. Sant’Anna, dalla raffigurazione che ne rimane, appare essa stessa una fortezza, irta di torrioni e mura solidissime, ma tarda, rinascimentale. C’era però già nel Medioevo una grangia. Nel 1243 ne leggiamo notizie in un documento greco che abbiamo pubblicato con ampio commento (Squillace 1243, un patto tra monasteri, estratto da Vivarium Scyllacense, 2001), il cenobio di San Gregorio Taumaturgo di Stalettì e la certosa di Santo Stefano del Bosco si scambiavano dei possedimenti. Tra i luoghi in agro oggi di Montauro, troviamo Agrilleano (Grillea ?), il torrente Franco, Gunnaradi; e i cognomi Agresta, Gerace, Grillo, Grillone, Leo, De Leo, Di Leo, Leone, Leuzzi, Leotta, Rao, Vetere. Quante cose vere, a Montauro; altro che i Templari che mai non furono! Ma non se ne cura nessuno, né sindaco né clero né operatori turistici. Poi vi lamentate che la Calabria è l’ultima regione d’Europa! Ulderico Nisticò
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