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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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L’ELMO DI SCIPIO, BENIGNI E ANNIBALE
Approfitto però della notorietà improvvisa di “Scipio” (sarebbe Publio Cornelio Scipione Africano Maggiore) per raccontare come andarono le cose negli anni 207 – 202 aC. Qualcuno potrebbe obbiettare che è passato molto tempo, e Zama si trova in Africa, oggi Tunisia, e perciò non importa più di tanto. E invece è una faccenda che ci riguarda molto, molto da vicino, se non nel tempo, certo nello spazio. Come quasi tutta la storia calabrese a parte la fucilazione di Murat, anche questa è ignota ai più, e perciò faccio il mio dovere di insegnante, e colmo le lacune. Vincitore in battaglie campali, ma sostanzialmente sconfitto dall’energica reazione romana, Annibale sperò in soccorsi, che i Cartaginesi e non volevano e non potevano mandargli per l’assoluta supremazia navale dell’Urbe. Scipione aveva conquistato la Spagna, ma, per prendere Cartagena, lasciò passare Asdrubale, fratello di Annibale: eh, Benigni, altro che “più grande generale della storia”. Asdrubale arrivò in Italia, ma Livio Salinatore e Claudio Nerone lo annientarono al Metauro, e la sua testa venne spedita ad Annibale. Questi si ritirò tra i Bruzi suoi alleati, e tra le superstiti città greche in cui il partito popolare stava dalla sua parte. Pose il campo in una località che poi i Romani chiamarono proprio Castra Hannibalis, e che, stando alla logica e alla Tabula Peutingeriana, deve trovarsi tra le attuali Catanzaro Lido e Isola C. R.; restando esclusa l’ipotesi, pur sentitasi, che si pensi ai nostri ruderi di Poliporto, giacché l’esercito punico, composto in massima di cavalleria, aveva bisogno di assai più ampi spazi; e del resto, guardate – si trova in internet – la carta suddetta. A proposito, nemmeno Claudio Marcello morì a Sainaro, e questo nome non significa affatto sanguinario. Il grande condottiero cadde in Lucania, secondo Livio. Nel 208, Locri, pentita e delusa dei Cartaginesi, aveva mandato messi a Scipione, chiedendo un soccorso per ribellarsi. Mentre una flotta sotto il comando di L. Cincio Alimento si avvicinava alla città, il presidio romano di Taranto inviò una spedizione terrestre. Annibale tese un agguato sotto il colle di Petelia, e uccise duemila uomini; altri vennero fatti prigionieri; il resto fuggì disordinatamente. Cincio con la flotta assediò Locri, ma Annibale, da Crotone, accorse lungo la costa. Il presidio cartaginese di Locri, comandato da Magone, compì una sortita, e i Romani, stretti tra Magone e Annibale, dovettero ritirarsi sulle navi. Tre anni dopo l’insuccesso di Locri, nel 205, Scipione ritentò l’impresa, grazie ad alcuni fuorusciti che erano a Reggio. Questi, tornati a Locri con un inganno, permisero l’ingresso delle truppe di Pleminio, mentre i Cartaginesi si ritiravano sull’acropoli: potrebbe essere Gerace? Annibale, indomito, venne ancora in soccorso dei suoi, e stava per battere i Romani, quando il popolo locrese, ormai apertamente ostile ai Cartaginesi, uscì in armi, e lo convinse ad abbandonare la città. Scipione, tornato dalla Spagna a Roma, propose di attaccare Cartagine in Africa, sulle orme di Agatocle e Attilio Regolo. Si scatenò uno scontro politico e di concezione della vita e del mondo tra Catone, tradizionalista e contrario all’imperialismo borghese, e Scipione e i filelleni e grandi mercanti. Catone, antesignano di Di Pietro, da cui lo distingue però un oceano di cultura e serietà, ci provò anche con i processi, ma Scipione la spuntò, e in Sicilia allestì una poderosa una spedizione. Costretti i Cartaginesi a patteggiare, impose loro che richiamassero Annibale dall’Italia. Questi si rodeva nell’ozio, ingannando il tempo con lo scrivere in greco le sue memorie, affisse in tavole di bronzo al tempio di Era Lacinia: che colpo sarebbe, ritrovarle! Aspettandosi di dover lasciare l’Italia, aveva radunato una flotta da trasporto in tutta la costa ionica ancora in suo possesso, costruendo navi con il legname della Sila. Ai Bruzi e altri alleati italici chiese di seguirlo in Africa e giocare lì contro Roma l’ultima partita. Alcuni accettarono, e a Zama troviamo con lui un contingente di duemila bruzi. I più si rifiutarono, e Annibale a tradimento li fece sterminare dai suoi cavalieri, “affinché Roma un giorno non possa disporre di così magnifici soldati”. Ordinò poi ai suoi di saccheggiare le città e nemiche e alleate – anche Poliporto? E, se restava, Scillezio? E, se c’era, Sanagasi? – e si imbarcò verso il suo destino, con il cuore colmo di rancore verso la patria ingrata. A Zama elaborò il suo piano migliore, ma i rammolliti coscritti cartaginesi e i mercenari raccogliticci sparirono sotto i colpi dei Romani e della cavalleria di Massinissa re di Numidia. Non finì così. I Bruzi superstiti vennero ridotti allo stato di schiavi pubblici. Castra Hannibalis è attestata ancora per secoli: aree archeologiche bisognose di studio emergono a Simeri, Sellia, Cropani, Botricello... Annibale governò Cartagine per un po’, poi andò in esilio in Asia, dove fu al servizio di vari città e re, sempre sperando di riprendere la guerra contro Roma. Un giorno incontrò Scipione in una città neutrale, e i due cenarono assieme, discutendo amabilmente di storia militare. “Chi sono è più grandi generali della storia?”, e Annibale: “Alessandro, poi Pirro, poi io”. Scipione, punto nell’orgoglio: “E se mi avessi battuto?”; e Annibale, cortesemente: “Allora sarei il primo”. A Magnesia poteva verificarsi il girone di ritorno di Zama: Publio era di fatto il comandante romano, e ufficialmente suo fratello poi detto l’Asiatico; Annibale era alla corte di re Antioco, che però non ne comprese il valore, e si affidò a cortigiani vil razza dannata: bisognerebbe sempre diffidare dei cortigiani che davanti ossequiano e alle spalle parlano male! I Romani stravinsero sui molli e ben abbigliati siriani; ma Catone attaccò gli Scipioni come tangentisti, e li portò in tribunale. Tutto il mondo è paese, altro che Ruby! Publio lasciò la città dicendo “Ingrata patria, non avrai le mie ossa”. Annibale, venduto ai Romani da un certo reuccio Prusia, si suicidò. Insomma, ingrata Cartagine, ingrata Roma: mi posso meravigliare dell’ingratitudine degli Amici di San Gerardo e di altri amici? No: e sono in ottima compagnia. In fondo io non sono Annibale né Scipione, e non ho vinto né perso alcuna battaglia. Non è colpa mia, però: ho fatto il militare, con ben sessanta servizi di guardia armata, ma in quegli anni l’esercito italiano era così scalcinato che non solo non faceva la guerra a nessuno, ma nessuno, per misericordia, la faceva a noi. Peccato: uno non si può scegliere l’epoca in cui vivere. Ulderico Nisticò ARTICOLO CORRELATO
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