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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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VERTENZA PAPARO... LA GENESI
Martedì scorso, per iniziativa del prof. Alberto Scerbo, l’Università di Catanzaro ha tenuto un dotto convegno sui giuristi calabresi, primo, pensiamo, di un progetto di recupero della nostra memoria storica a proposito di leggi e diritto. Ottavo tra cotanto senno – Lorenzo Sinisi, Donatella Monteverdi, Andrea Porciello, Antonio Carvello, Paola Chiarella, Antonella Beatrice Bongarzone e lo stesso Scerbo – mi sono scelto per argomento Gian Francesco Paparo, e, per la prossimità a tutto il nostro territorio, ritengo utile farne partecipi i lettori. Nato, a quanto pare, negli ultimi anni del Cinquecento a Montepaone, dal contadino Altobello e da una Mattei, studiò probabilmente presso i Gesuiti, presenti a Catanzaro dal 1563, e, in una vita lunga e fortunata, fu avvocato e giurista, giungendo all’onorato titolo di avvocato dei poveri. E già, non era l’avvocato d’ufficio il primo che capita, ma, nel nostro cattolicissimo Reame di Napoli, il migliore di tutti, e godeva del rango di ministro e di privilegi e immunità che gli consentivano di esercitare al meglio il suo nobile ufficio. Altri tempi, altri poveri! Catanzaro, dopo aver risolto la vertenza decennale con Reggio e Monteleone (oggi, Vibo V.), era capoluogo della Calabria Ultra, estesa dal Neto e Savuto allo Stretto, e sede della Regia Udienza. Per secoli sede di conti normanni, poi dei Ruffo, era città libera dai tempi di Alfonso il Magnanimo; ricca produttrice di seta e per questo celebre in tutta Europa, era abitata da nobili, onorati (borghesi) e popolo, equamente rappresentati in consiglio comunale da quindici delegati per ceto; due sindaci l’amministravano per un anno. La vivacità economica comportava anche problematiche e controversie, e c’era gran lavoro per gli avvocati. Gian Francesco nel suo tempo fu assai famoso. I poeti gli scrissero versi latini, giocando molto sul cognome Paparo, reso nobilmente come anser. Ma i palmipedi non c’entrano: Paparo, come tutti i toponimi e antroponimi del genere, significa Prete bizantino, probabilmente Prete Rao. Nel mezzo della sua attività professionale, egli scrisse di diritto, ma, piuttosto che qualcosa di teoretico, dei manuali tratti dalla sua esperienza di frequentazione attiva dei tribunali. Nel 1630 pubblicò Le consuetudini di Catanzaro, raccolta di usi particolari della città, opportunamente commentati, che riguardavano questioni di proprietà, fitti, patti matrimoniali e dote. Sorprende la consuetudine detta protomisi, prelazione dei parenti in caso di vendita di un bene immobile, che risaliva agli imperatori d’Oriente della dinastia macedone e fu abrogata solo nel 1784. Alla seconda edizione, cinque anni dopo, Paparo aggiunse un trattato di diritto procedurale penale, Aurea praxis iudiciaria... a proposito di un argomento piuttosto delicato: l’uso della tortura giudiziaria. Fermi lì, non storcete il vostro democratico naso e politicamente corretto: giusto un paio d’anni fa il Congresso americano ha sancito il diritto di soffocare i prigionieri di Guantanamo per ottenere informazioni; il che, al paese mio, si chiama tortura. Ma, credetemi sulla parola oppure leggete l’Aurea praxis, il Paparo ci informa che per mettere alla tortura della corda un suddito napolitano occorreva l’esplicito permesso del viceré, e dopo che giudici di nota autorevolezza avessero esperito accurate indagini; comunque la tortura non era mai una prova, dovendo essere preceduta da indizi serissimi, uno dei quali era se l’imputato portava su di sé un carico di cattiva fama. Se poi leggiamo che è sempre ammesso ricorso avverso il decreto di tortura... insomma, succedeva ogni cent’anni, che qualche giudice riuscisse a farne uso davvero. Tra una causa e un libro, Paparo fu anche al servizio dei Ravaschieri come consultore del feudo di Badolato. Il diritto feudale nel Reame era molto complicato, nascendo da sovrapposizione di poteri e dinastie. Occorrevano perciò dei giurisperiti. Il Paparo mise in qualche modo radici in Badolato, e i suoi eredi, divenuti baroni, acquistarono terre ai tempi della Cassa Sacra, di Murat e dei Piemontesi, quando i beni ecclesiastici e demaniali vennero venduti a tutti... e acquistati da pochissimi amici degli amici. Anche a Soverato possedevano terra, e il resto è dolorosa storia nota, che iniziò dunque sui banchi del tribunale di Catanzaro. Ulderico Nisticò
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