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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Divagazioni a proposito di un film su Nassiriya
È fuor di dubbio che se uno vuole trionfare in un concorso letterario, cinematografico, musicale o di qualsiasi altra specie, e non ha idee particolarmente originali, se la può cavare benissimo con una o più delle seguenti tematiche: droga, donne nevrotiche, uomini in crisi, poveri, immigrati... insomma, il vecchio immortale modello dello strappacore; in Calabria, poi, dove da sempre cultura viene intesa come depressione! Se c’è un morto, si guadagnano punti: con ventidue, figuratevi, il successo è assicurato. Infatti. Niente di nuovissimo, del resto, se tutta l’epica è fatta di grandi sconfitte: Achille deve morire, Sigfrido e Orlando muoiono... e sono stati girati bellissimi film sulle sconfitte gloriose, persino un paio, ben fatti, su Alamein; e scritti libri di gran pregio. Il migliore è quello di Paolo Caccia Dominioni, di straordinaria finezza letteraria e compostezza morale. Ve ne cito due episodi, altissimi momenti di poesia della guerra. Il primo è un fonogramma, sì proprio un fonogramma, il più umile e sgangherato mezzo di comunicazione dell’esercito. Guardate come diventa, nel suo arido stile, un vero poema epico. Era l’ultimo giorno di Alamein, e un tenente carrista comunicò così: “Carri nemici fatta irruzione ovest. Con ciò Ariete accerchiata. Carri Ariete combattono”. Dopo un’ora non ce n’erano più. Ah, poesia degna della risposta del vecchio spartiata ai Tebani, i quali, giunti vincitori, chiedevano dove fossero i guerrieri: “Sono tutti morti, o voi non sareste qui”! L’altro, una delle poche cose nella mia vita che riesce a commuovermi dal profondo. Caccia Dominioni si dedicò, dopo la guerra, al recupero delle salme dei combattenti d’Africa, e creò il cimitero italiano, tedesco e inglese. Per il nostro settore trovò nel deserto la torretta di un carro; si rivolse, per trasportarla, a un camionista libico, e gli chiese quanto voleva. Questi, che era stato un soldato delle nostre truppe indigene, rispose così: “Niente: voglio solo che la torretta sia puntata verso il Cairo”. Ecco due splendidi esempi di letteratura della sconfitta. Del resto, non dice forse Aristotele che la tragedia è ta pathe ton heroon, le grandi sventure degli eroi? Giusto, caro Stagirita. Solo che a Nassiriya, quel triste giorno, ci furono sì grandi sventure, però non si vide alcuna traccia di eroi. Gli eroi sono infatti coloro che compiono gesta di valore, o vincendo o venendo sconfitti. In quella caserma nessuno ha compiuto gesta, anzi, più esattamente, nessuno ha fatto niente, a parte morire: e me ne dispiace umanamente per loro e per le famiglie, ma non si trattò di più di un incidente, come un treno che deraglia. Un autocarro viene lanciato a tutta velocità, entra nella caserma, esplode, mentre gli occupanti del luogo non fanno nulla per fermarlo. E che dovevano fare? Beh, nulla di straordinario: solo quello che fa un qualsiasi soldato messo di guardia, e ho fatto io tra il 1973 e il ’74 per ben sessanta volte di numero, cioè intimare l’altolà due volte, la terza aggiungere la minaccia di sparare, e, ciò fatto invano, effettivamente sparare addosso al male intenzionato; attività che non richiede uno speciale stato d’animo da arditi sul Piave, ma dev’essere considerata banale adempimento di una consegna. Chiunque ha prestato servizio militare lo può confermare. Quel giorno, a Nassiriya, c’era forse un piantone, certo non c’era un servizio di guardia come avverrebbe in qualsiasi posto tranquillissimo d’Italia, figuratevi come doveva avvenire al fronte. C’era una porta carraia spalancata manco fossero stati a san Benedetto del Tronto o a Frosinone! Ovvio che la colpa non è dei soldati ma degli ordini ricevuti: il generale, infatti, è stato condannato a due anni, poi assolto per qualche cavillo. Spero almeno non gli abbiamo più affidato manco il comando di un pollaio! A sua volta, il generale, lui sì, fu vittima del politicamente corretto e della bufala che noi eravamo lì per portare caramelle ai bimbi buoni figli degli Iracheni buonissimi, i quali, come tutti sanno, non vedevano l’ora di essere occupati dagli Americani e pure dagli Italiani. Beh, non era minimamente vero, sono cose che si dicono per la propaganda, per i giornali... solo in Italia si trova un cucco così cucco da crederci! Confido che, se non lo hanno licenziato come meriterebbe, sia dietro una scrivania a timbrare cartacce a vita, messo in condizioni di non nuocere. Perciò Nassiriya è un fatto diseducante da dimenticare, non da farci film. I morti non furono eroi perché furono morti e basta, senza sparare un colpo; non furono vittime perché non erano bambini disarmati; non furono martiri perché non si esposero volontariamente a un sacrificio. Si addice loro il generico epiteto di caduti, proprio di chi perde la vita in operazioni belliche. Ma siccome dobbiamo dire che non era una guerra, ecco che li hanno chiamati in tutti i modi: martiri, vittime, eroi. Ci manca solo santi, ma non disperate... E giù film per tentare di far credere che la cosa non è andata come in effetti andò: male. A qualcosa però la vicenda è servita: da allora i nostri, sparsi in posticini come Afghanistan, Libano, Bosnia eccetera, hanno imparato la lezione, e se ci sono perdite, e purtroppo ci sono, quei soldati cadono in combattimento, non colti alla sprovvista. Secondo me, succedono tante altre cose che i giornali non sanno e i giornalisti, per onesto patriottismo, celano: ma mi pare difficile che in località così agitate non capiti mai ai nostri di dover sparare per primi; e se è così, fanno bene. Subito dopo Nassiriya si svolse la battaglia dei ponti, una battaglia vera: l’abbiamo vinta, e non al superenalotto. Un esercito, del resto, si forma così: al fronte. Vi prego, dunque: una volta tanto, fatemi vedere un film in cui vinciamo noi, in cui i nostri, sfuggiti a un attentato non per caso ma per normale, anzi doverosa reazione, festeggino il successo con Cirò e Barbera. Estendendo il concetto, fatemi vedere un film senza depressione, senza figli morti, intellettuali frastornati, casi umani, fallimenti di vite, frustrazioni di sogni sterili... Io, che depresso non sono, quei tipi di film non li andrò a vedere mai né a pagamento né gratis. Se proprio non sono a un convegno o a cena con gli amici, la sera ho da scrivere, e, intanto, lascio la televisione accesa e mi gusto, con la coda dell’occhio sinistro, un bel telefilm poliziesco americano, in cui alla fine, in nome del più prevedibile e riposante manicheismo calvinista, i buoni sconfiggono i cattivi, i cattivi finiscono sulla sedia elettrica o all’ergastolo, e loro, i buoni, sopravvivono e stanno benissimo, sorridenti e felici di avercela fatta a compiere un’altra volta il loro dovere. Ulderico Nisticò
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