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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Stagioni teatrali imminenti
Beh, se per direzione s’intende che uno piglia soldi pubblici e li spende, anche i miei cagnetti Vento e Nino se la caverebbero benissimo. No, forse Nino e Vento: ma anche con i soldi, c’è chi se l’è cavata alla peggio, e non sto a rinvangare. Giacché un teatro non è un posto dove viene qualcuno, recita, si paga e se ne va; dovrebbe essere soprattutto il punto d’incontro, di confronto, di socialità: la vita attraverso la sua rappresentazione. Un po’ di storia. Il greco thèatron è connesso a theàomai, contemplare, e a thèa e theoria, e probabilmente con theòs: era dunque sacro, in origine perché derivato da riti e cori religiosi, poi per una sorta di sacralità civile, per cui assistere alle tragedie era un dovere, e allestirle era compito dello Stato attraverso una tassa individuale detta, guarda tu, liturgia. La tragedia, attraverso il mito, affrontava gli eterni temi dell’esistenza e della politica nobilmente intesa; la commedia era più esplicita, e un bel giorno Aristofane mise in scena, per deriderli, Socrate e Cleone che erano sicuramente presenti in corpo tra gli spettatori! Ecco perché in ogni città greca c’era un teatro, e imponente: non era un ozioso divertimento, era un’occasione di socialità. Soverato, negli anni 1920, aveva un teatro a Soverato Superiore e uno in Marina. Faceva teatro la scuola salesiana. Ne derivarono le vecchie compagnie amatoriali, le cui lodi canteremo un’altra volta. Oggi abbiamo un teatro del Grillo e il Comunale. Ma hanno teatri di vario genere S. Andrea, Chiaravalle (Tempo Nuovo, e speriamo che presto finisca la telenovela dell’ex Impero), e Montauro; e qualche sala utilizzabile qua e là. Ci sono compagnie locali stabili (Sognattori, Grillo, Tempo Nuovo, Spazioscenico, Mediterraneo... ), e molte esperienze estemporanee interessanti. Aggiungiamo la danza, la banda, i complessi musicali, il cinema: abbiamo pur prodotto e girato a Soverato My land. Non siamo messi male. Bisogna dunque far uso di questa ricchezza. Per quanto mi riguarda, il mio programma di direzione artistica è di far rappresentare un certo numero di lavori professionali; di adoperare le compagnie locali prima di tutto di Montauro, poi del territorio; di aprire il teatro, e anche gli spazi aperti adiacenti, a manifestazioni musicali e canore. Se raccatterò molto denaro (utopia) farò molto; se poco, cercherò di supplire alla quantità con la qualità. La qualità è il punto irrinunciabile, e qui bisogna che ne scriva qualcosa. Per un pregiudizio scolastico, in Calabria qualità viene sentita come seriosità buonista e piagnisteo vagamente umanitario. E invece qualità non è cosa connessa al contenuto, bensì alla forma, il che in teatro significa: un testo forte se dev’essere forte, dolce se dev’essere dolce, comico se dev’essere comico; se in italiano, in italiano vero; se in dialetto, tradizione nobilissima, dialetto vero sia. La qualità, per dirla con Dante, è l’intenzion dell’arte. Chi non sa scrivere un testo, poco male, si affidi a chi sa. Lo stesso per la recitazione, le scene, le musiche, le luci, i microfoni. La qualità non è necessariamente costosa, e credo che lo abbiamo ampiamente dimostrato. I teatri comunali, ma l’attività teatrale in genere, hanno a che fare con i pubblici poteri, e questi si assumono la loro parte di responsabilità nel finanziare o meno, nel nominare Questo o Quello. Ogni scelta è per sua natura discrezionale, ed è illusorio ritenere che si possano individuare criteri automatici; e i poeti non hanno punteggi magari comprendenti figli a carico: ma tutti, direttori e sindaci e assessori, devono rispondere delle loro scelte e attività. La soluzione è questa, alla fine: chi fa bene, va lodato; se uno sbaglia, quanto meno dev’essere avvolto nel discredito. E sarebbe anche ora di smettere di creare leggende paesane: se un lavoro è pessimo, va detto senza ipocrisie; idem per il contrario. Mediocribus esse poetis non homines, non di, non concessere columnae. Ovvero, i poeti non possono essere mediocri, nemmeno se raccomandati, ci insegna Orazio. Ma qui da noi abbiamo tutt’altro che mediocrità: tiriamole fuori. Ulderico Nisticò
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