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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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MEMORIE BIZANTINE
Si è tenuto, domenica mattina, un convegno sugli affreschi della chiesetta bizantina del Campo di S. Andrea Marina. Sono andato ad ascoltare gli specialisti, sperando di imparare qualcosa di nuovo; però, chiamato a dire quello che so e penso io, dissi questo. Dal 553 al 1060 la Calabria da Rossano ad Amantea a Reggio appartenne all’Impero Romano d’Oriente, che si chiamava e considerava tale (gli abitanti si chiamavano Rhomaioi, pronunziato Romei), però di fatto era greco e parlava in greco. La nostra terra, prima enotria, poi greca, poi bruzia, poi romana, parlava latino, con qualche conservazione del greco classico; e venne in parte riellenizzata da diverse immigrazioni provenienti dall’Impero: soldati, funzionari, clero, monaci. Anche monaci, perché no: ma è ora di finirla con il luogo comune dei “basiliani”, seicento anni di monaci e solo monaci! I basiliani, sia detto per inciso, non sono mai esistiti; i monaci greci, quando si riunirono in cenobi, eleggevano un igumeno e adottavano una regola, spesso derivata dal typikòn di san Basilio, ma non costituivano una gerarchia; sotto i Normanni i cenobi furono obbligati ad una disciplina che faceva capo, non geograficamente, a S. Giovanni Teresti, S. Elia di Carbone e SS. Salvatore di Messina; diede vita a un Ordine Basiliano il cardinale Sirleto, ma nel XVI secolo. E comunque i monaci sono una delle molte componenti di una variegata vita politica e sociale della Calabria imperiale. Con gli imperatori Macedoni, soprattutto Niceforo II Foca (961-9), vennero colonie di contadini armati ad edificare i kastellia, borghi fortificati. Sono i nostri paesi collinari, greci nel nome: Stilo, Monasterace, S. Caterina, Badolato, Isca, S. Andrea, S. Sostene, Davoli, Gagliato, Petrizzi, Olivadi, Centrache, Cenadi, Montauro, Stalettì, Catanzaro, Sellia, Cropani, Botricello, [Petilia] Policastro, Mesoraca, Petronà. I castelli sono tutti ben visibili dal mare e uno dall’altro, ad onta del pavido luogo comune “fuggirono dove non potevano essere visti”, elaborazione di chi scarica sugli altri le proprie paure di vivere: al contrario, i castelli vennero difesi valorosamente e con successo, prima contro i Saraceni, e, secoli dopo, contro i Turchi. Sono quasi tutti greci i toponimi prediali e locali. Sono greci i santi patroni, e spesso militari o legati comunque all’esercito: Agazio, Barbara, Sostene, Teodoro, la Madonna Basilissa... ma anche Andrea, Caterina d’Alessandria, Gregorio Taumaturgo, Nicola, Pantaleone... Il legame politico della Calabria con l’Impero d’Oriente cessò con la conquista normanna (1060, presa di Reggio); ma ancora per secoli si parlò il greco: e noi ci chiamiamo di cognome Calà, Caliò, Catricalà, Clericò, Condò, Crasà, Destito e Sestito, Femia, Fragalà, Fragomeni, Macrì, Melia, Nisticò, Papaluca, Papandrea, Paravati, Samà, Santopolo, Tassone... I documenti si scrivono in greco, sia pure arrangiato, per secoli. È per queste ragioni che non c’è da stupirsi sorgessero monumenti come la Cattolica, S. Giovanni Teresti e questa chiesetta del Campo di S. Andrea. E nemmeno che, ai suoi bei tempi, fosse interamente e magnificamente affrescata. Rimane ben poco, ma la puntuale ricostruzione che ne ha fatto Manuela Pisano basta a farci immaginare la ricchezza artistica di questa Sistina dimenticata. A che serve, tutto ciò? Lascio agli specialisti di studiare quanto di loro competenza; da storico dilettante quale sono, o piuttosto da uno che riflette sulla politica nel senso più nobile, rispondo che serve a recuperare il passato per il presente e per l’avvenire. Intanto non c’è alcuna logica nel pensare che una tale meraviglia – e tutte le altre – siano piombate in un deserto di fame e barbarie: chi si sarebbe mai presa la briga di affrescare una chiesa a vantaggio di quattro poveracci abbrutiti dalla disperazione e dalla miseria morale e materiale, rozzi caprai? È ovvio il contrario: che si adornano dei muri perché qualcuno li ammiri, e dunque per chi sia in grado di ammirarli. E roba del genere ha un costo anche monetario, che nessuno avrebbe mai sostenuto in una desolazione. Sgombriamo dunque la strada da un altro luogo comune. La Calabria non è mai stata povera, se non dalla fine del XIX secolo: e questo un po’ per colpa degli invasori piemontesi e molto per colpa di una classe dirigente di ottusi borghesi arricchiti e, peggio ancora, superficialmente scolarizzati. A loro si deve attribuire gran parte della perdita del patrimonio artistico. Prima con la Cassa, e soprattutto con Murat e con lo Stato unitario, dei rampanti comprarono a due soldi immense estensioni di terra di Chiesa; quindi s’inventarono di essere nobili delle Crociate e comprarono anche dei titoli; infine, rivi di una cultura che non fosse appiccicaticcia (allora e oggi!), o, alcuni, animati da luciferino spirito di ateismo o deismo massonico (écrasez l’infame, cioè il cristianesimo, ordinò loro Voltaire), ridussero le chiese a stalle. La Cattolica di Silo porta i segni di picconate evidentemente ideologiche! Così le tracce del passato vennero cancellate a bella posta; e ai calabresi restò l’impressione di essere privi di storia. C’è sempre il rischio dell’iconoclasmo, dalla distruzione delle immagini... a certi spogli altari banconi di bar in magnifici edifici antichi! E penso anche ai criminali rimaneggiamenti di chiese verso gli anni 1960; o alla loro demolizione. A che serve questa lezioncina? A proposito, chi non vuole fruirne, mica è obbligato a leggere i miei pezzi: passi avanti verso argomenti più consoni a sé. La cultura non fa male a nessuno, però, specialmente quando è comunicata alla buona, senza pedanterie. La lezioncina servirebbe anche, per esempio, al turismo culturale, di cui campano alla grande paeselli umbri dove c’è una mezza torre e manco il 10% di quello che abbiamo in Calabria, solo che qui non lo sa quasi nessuno. Fior di professoroni, che in città passano per “che grande uomo di cultura” mi hanno confessato di non aver mai messo piede a Roccelletta, o, come diremmo noi dotti, Colonia Minervia Nervia Augusta Scolacium, una città romana a 17 km da Soverato: manco fossero i resti di Atlantide sperduti in mezzo al Mare Incognito! Via, dieci minuti di auto, un’oretta in bici per un dilettante come me. E, via, confessate, quanti di voi, amati lettori indigeni, hanno visto la Pietà del Gagini, km. 1,5 da Soverato Marina, km 0,0 da Superiore? E figuratevi Gerace, S. Severina, Tiriolo, Taverna, Altomonte, Cropani... Bisogna dunque recuperare l’orgoglio legittimo della nostra storia; a cominciare dalla sua conoscenza, che è scarsa o assente. Mica si può continuare a ripetere che ci fu la Magna Grecia... e poi saltare alla fucilazione di Murat; s’intende, non chiedete se hanno schioppettato costui per motivi politici o per abigeato o divieto di sosta: tanto i più non sanno manco chi era! Ulderico Nisticò
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