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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Historia Catacensis al lavoro, e la Calabria del 2012
A che servono gli studi storici? Semplice: a capire, attraverso il passato, il presente, e pensare perciò all’avvenire. “Natura delle cose”, insegna il Vico, “è il loro nascimento”; dunque i nostri pregi, e i nostri non pochi difetti, dico di noi calabresi, hanno radice nella storia, e, se vogliamo esaltare quelli e correggere questi, bisogna conoscerla. Dalle conversazioni di questi due giorni è emerso un fenomeno antico su cui merita che si facciano riflessioni di attualità. Tutti, almeno per sentito dire, sanno che la Calabria, e Catanzaro in specie, furono la capitale europea della seta dal secolo XIII ai trionfi del XVI; per questa ragione gli ordinamenti comunali del 1473 assegnavano al popolo, cioè agli artigiani, la netta prevalenza, con trenta rappresentanti su quaranta nel Consiglio comunale; e nel 1519 Carlo V concedeva alla città il Consolato della seta, venendo ricompensato dai Catanzaresi con la manifestazione di virile fedeltà del vittorioso assedio del 1528 contro i Francesi. La seta veniva prodotta nei piccoli centri di campagna; le famiglie allevavano il baco, filavano per le proprie esigenze, avviavano l’eccedenza ai centri di lavorazione. Grandissima parte della terra coltivabile era destinata al gelso. Restano ancora le parole dialettali sìricu, matassa, e toponimo come Fondachello, Filanda… Ancora nel XIX secolo c’era un poco di attività, ed è celebre la fotografia scattata a Firenze verso il 1880, con l’insegna “Qui si vende la vera seta di Catanzaro”; ma di tutto questo non sopravvive nulla. Qualche coraggioso tentativo di recupero si sta compiendo a Cortale, a San Floro. Ecco a che serve studiare la storia, a capire come si possa percorrere una strada sbagliata e ostinarsi a non cambiarla! Cos’è che condusse la seta catanzarese alla lenta decadenza e alla fine? Magari i progressisti della domenica penseranno che è stata superata da produzioni altrui, anche di seta, migliori. E certo, verso il XVI secolo, inizia timidamente, anche utilizzando maestranze catanzaresi, un’industria della seta in Lombardia e nel Veneto (Renzo e Lucia sono operai stagionali della seta, e, nella parte ultima del romanzo che non legge nessuno, acquistano a Bergamo un filatoio); e così accade nei Paesi Bassi e altrove. La produzione italiana ed europea batte quella calabrese esattamente per il contrario di quel che si potrebbe pensare: perché era di qualità più modesta, più economica, e perciò con più mercato. Catanzaro continuò a filare tessuti di altissima qualità, perciò di prezzo elevato, e senza mercato. Peggio, non si adeguò alle tendenze, alle mode, ai gusti. Peggio che peggio, i mastri, protetti dagli statuti comunali e da quelli del Consolato, non dovevano temere concorrenza, e perciò non accolsero alcuna innovazione, e continuarono a fare come il nonno e il nonno del nonno. Ecco il triste difetto dei Calabresi allora e oggi, ed è confondere due cose che sono diversissime, anzi antitetiche tra loro: il conservatorismo e la tradizione. Le conseguenze furono che la città si chiuse; il popolo, sempre meno potente, rinunziò alle istituzioni aragonesi, mentre una piccola nobiltà si arroccava a difendere i suoi modestissimi comodi. Né ricca né povera, Catanzaro visse e vive in oscura tranquillità, ormai divenuta borgo impiegatizio. Ecco le riflessioni. Anche la Calabria del 2012 è ferma al palo del suo conservatorismo di cose che non vale affatto la pena di conservare, anzi andrebbero buttate via d’urgenza e rinnovate: una classe politica men che mediocre a trecentosessanta gradi – no, a settecentoventi, a mille e quattrocento quaranta, attese le giravolte da un partito all’altro, da una maggioranza all’altra! -; dei funzionari e impiegati regionali pessimi; degli accademici libreschi e settoriali e che, pur di comparire in un trafiletto dei giornali, laureano Benigni; una Chiesa prudente e afona, salvo quando parla a sproposito e per sermoni edificatori e non edificanti; giornali e tv politicamente corretti e un TG3 a botte di convegni antimafia segue cena e corrispondenze quotidiane da Varapodio; opinione pubblica cloroformizzata. E tutti protetti da un Consolato come la seta del 1519: da una loggia massonica, un “club service”, una parentela, una cena, una consorteria, e, in qualche caso, una mafia. Tutto questo deve subito sparire, se ci vogliamo salvare. Sogni? Lo so, sono sogni: il calabro non vuole cambiare: giacché è convintissimo che va bene così, come i mastri setaioli finché anche l’ultimo vecchio telaio non venne utilizzato nel camino. O come a Soverato che, in nome dei turisti del 1980, sono certi di averli anche nel 2012 negando l’evidenza. Ma ecco a che servirebbe studiare la storia, a riparare agli errori. Ulderico Nisticò
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