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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
Numero 378 - Per eventuali Commenti su questo articolo scrivere a: info@soveratoweb.it |
Il brutto e la mafia, ovvero Manca una pecora…
Manca una pecora, dice un simpatico apologo in dialetto. Il padrone ne chiede al pastorello; e quello, che evidentemente se l’è mangiata lui, risponde subito che se l’è mangiata il lupo. Il Corriere della sera, giornale serioso e del tutto privo di senso dell’ironia, va in brodo di giuggiole per l’ultimo libro di Bregantini sulla Calabria dal Molise, che si aggira sulla seguente tesi: se i paesi calabresi degli ultimi decenni sono brutti, sciatti, disordinati, la colpa è, ovviamente, della mafia. Una premessa. La tesi, sulla cui inconsistenza tra poco torneremo, contiene però un fondo di verità, ed è che i paesi calabresi di prima, prima degli anni 1950, dico, sono, erano a loro modo belli. Le case, piccole, perché, dice il proverbio, “casa quant’u stai, terra quantu poi”, e le cose importanti erano terra da coltivare e, per i maschi la piazza, per le donne la “ruga”, cioè la comunità, l’incontrarsi, lo scontrarsi, l’amoreggiare, il litigare… non come ora che se muore il vicino di pianerottolo lo leggi sui manifesti funebri. Bellissimi i luoghi di tutti, i luoghi dell’incontro: le chiese. Poi che cosa accadde? Che tutte le chiese della Calabria vennero dichiarate alluvionate quando non era vero assolutamente nulla, e le colonne di granito furono coperte di glaciale cemento; i pavimenti di pietra e le lapidi dei morti coperte da tristi mattonelle di graniglia: accadde persino ai mosaici della cattedrale di Rossano; e, qui da noi, alle tombe dei miei avi a Cardinale. Una delle facciate più anonime dell’orbe cattolico è la chiesa di Argusto: ma guardate la foto di prima dei vandali in tonaca: era magnifica. E ancora andò bene: la chiesa barocca di Sant’Andrea venne abbattuta, e non solo, le ossa delle cripte lasciate ai cani: letteralmente, restano le foto e un malinconico quadro. Peggio, ne vennero costruite di orrende, brutte copie di cappelle protestanti, senza alcuna sacralità, e meno che meno acustica. È stata la mafia a devastare le chiese, negli anni 1950 e seguenti? Che io ricordi, allora non fu la mafia a divenire famosa per le costruzioni e relativi scandali, in quegli anni, a proposito di chiese e luoghi annessi! Ma parce sepulto, anzi sepolti: i più anziani sanno nomi, cognomi e titolature canoniche. E i quartieri? Volete una prova evidente di cosa dico? Andiamo ancora a Cardinale, e confrontiamo due quartieri, uno, Novalba, ancora di umane e sana urbanistica piacentiniana (quella dell’EUR, di Littoria, per capirci), con piazza e chiesa e linde casette con un po’ di verde, e strade larghe; e l’altro l’incubo Cuccumella di purissima era democristiana. Fu la mafia? No, fu la meschinità culturale. A Soverato, dove tutto sommato è meno grave che ad Africo o a Strongoli, a chi venne a mente di innalzare in via Amirante decine e decine di casamenti “economici e popolari” senza un bar, una piazza, un negozio, veri cimiteri dei vivi, e abitati da gente che, per distanza, non partecipa alla vita sociale? Alla mafia? Ma no, a una persona di proverbiale e francescana onestà, Antonino Calabretta, che però aveva un’idea democristianissima del vivere; e anche l’altrettanto specchiato figlio Gianni ci aveva provato a Mortara con i dormitori privi di servizi: fortuna che lo hanno fermato in tempo. Errori ideologici, ma non c’entra niente non dico la mafia, ma nemmeno il più banale divieto di sosta o qualsiasi reato. Basta, per ora. Perché ne parlo? Ma perché è ora di una civile ma durissima rivolta ideale contro il dilagare dell’antimafia, ivi compresa quella in buona fede quale penso sia quella dell’attuale arcivescovo di Campobasso; ma senza dubbio à la page. Non è più tollerabile che la mafia sia l’alibi morale e culturale atto a coprire tutto e il contrario di tutto, compresa l’incapacità degli urbanisti e architetti e ingegneri di progettare un quartiere per esseri viventi, o condomini che non paiano scatole di scarpe. I vecchi capimastri analfabeti ci hanno lasciato capolavori facendo i conti alla femminile, sulle dita; e questi laureatoni non hanno un minimo di umanità, del rapporto tra costruzione e paesaggio, di cura del colore, della facciata mossa, dei servizi e luoghi comunitari tra un loculo e l’altro? Sono mafiosi? No, solo sciatti e ciuchi. Vi posso informare che, nelle conversazioni private, tutti ma proprio tutti i calabresi sono convinti che l’antimafia sia un mestiere, un modo per cui il professorino grigio e anonimo gode cinque minuti di notorietà sul TG3 le poche volte che questo non è a Varapodio, un giro di progetti e giornate sottratte alla scuola vera… Se me lo dite sussurrando a cena, perché non lo dite in giro? Così magari la Regione, Assessorato alla cultura, spende qualche soldo per la cultura invece che per l’antimafia. Ho sentito che sono stati investiti nove milioni di euro (quasi diciotto miliardi vecchie lire!), per l’antimafia: vorrei sapere quanti soldi ci sono per biblioteche, libri, convegni seri, scavi archeologici, cinema, teatro, turismo culturale! È ora di finirla con il mestiere dell’antimafia. Marce e cene e convegni e temi e libri antimafia non danno alla mafia il minimo fastidio, e qualche comodo a qualcuno. Meno marce e più arresti; meno libri e più controlli sugli affari della cosiddetta società civile. A proposito, a quando il processo alla vedova Fortugno, tanto per parlare di commissione antimafia? Sarà innocentissima, la signora, è ovvio: però lo deve accertare una sentenza di tribunale, non prendersela lunga in attesa di tempi migliori. Per ora, la vedova è sotto inchiesta. Che ne dicono i ragazzi Locri dal motto iettatorio Ammazzateci tutti? Postscriptum: Io dai tutti che vorrebbero essere ammazzati mi chiamo fuori. Non sentendo vocazione masochistica per il martirio inutile, in caso di pericolo resterei fedele al principio che è meglio un cattivo processo che un ottimo funerale. Ulderico Nisticò
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