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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Chiamato in causa…
Ma veniamo al latino. Se latino dev’essere, latino sia: e allora, Ave, Angele, vocativo; e non Angelus, che invece è nominativo. Coraggio, il Mirarchi è in buona compagnia. Ridanno Passion di Mel Gibson che pretende di parlare latino? Anche lì un soldato si rivolge al camerata e lo chiama “Cassius” mentre il vocativo, come sanno tutti i ragazzini di primo pelo, è “Cassi”. E a Pilato dicono “gubernator” che significa “nocchiero”, mica governatore! Figuratevi le a me ignote papere in aramaico! La pronunzia del latino è un bel mistero, ed io personalmente a tal riguardo sono molto eretico. Fino al VI, V secolo aC un Valerius si sarebbe detto Valesios, poi scattò il rotacismo; ma solo Appio Claudio ne prese atto. In tempi più antichi, è assai probabile che ci e gi avessero suono gutturale o velare (Chichero, ghenus). In un certo momento (ma quale?) la fonetica cambiò, e, nel latino medioevale, si giunse a quella che comunemente usiamo. Dico comunemente, cioè pure io, soprattutto quando si tratta dei dittonghi ae e oe. Non c’è dubbio che “rosae” deriva da “rosai”, e prima ancora da “rosa-i” con a e i entrambe di quantità lunga (moenera militiai, canta Lucrezio). Ma quando ai e oi divennero e lunga e i latini stessi pensarono bene di scriverli in maniera diversa dalla e? E se leggiamo i dittonghi aperti, si dovrebbe dire Càesar o Caèsar? I Greci ne fecero Kàisar, ma non prova molto, perché non avrebbero potuto, per ragioni della loro lingua, fare Kaìsar. Quanto a v, u e b, tendevano a somigliarsi; ma fino a quando? È questo il discrimine. È certo che la pronunzia del sermo urbanus era diversa da quella del plebeius, se un contemporaneo e nemico di Cicerone, che era per nascita un nobilissimo Claudius, ma si schierò con il partito popolare, si faceva chiamare per ideologia Clodius, segno che au si pronunziava ormai o: orum, oca, coda. Il latino era strumento di politica e amministrazione, perciò lo Stato lo controllava attraverso la scuola e l’esercito; come fece la Chiesa fino a tempi recentissimi. Ma una cosa è la lingua scritta o comunque consapevole, altra è quella di conversazione o gergale o dialettale o locale. Quando cadde l’Impero, e con esso il controllo linguistico, allora poterono liberamente formarsi le lingue neolatine, i nostri dialetti compresi. La pronunzia scientifica si rende necessaria in Francia, a scanso di sesàrm per Caesarem, e non oso immaginare che succederebbe in inglese! In Italia, possiamo accontentarci di una lettura approssimativa ma non deformante. In greco è peggio. Unici al mondo, gli Elleni di oggi pretendono di leggere il greco classico come parlano, e vengono fuori voli pindarici come i àndropi e tes Adines e via. Meglio, con qualche intimo dubbio, hoi ànthropoi e tais Athenais. Del resto le pecore che, secondo i poeti, fanno be come tutti gli ovini non possono invece aver mai detto vi in neogreco. Teniamoci il greco delle grammatiche. Con tutto questo, lode ad Angelo Oliverio che innalza il tono e suscita stimoli non di banale polemica ma di dotta diatriba. Ulderico Nisticò, o se preferite, Divitius Ieiunius. ARTICOLI CORRELATI
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