|
Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
Numero 407 - Per eventuali Commenti su questo articolo scrivere a: info@soveratoweb.it |
I nostri terremoti
Gli antichi avevano qualche memoria di grandi cataclismi, se interpretarono, più o meno a ragione, Rheghion come frattura, dal verbo rhègnymi. Sappiamo che verso il IV secolo venne colpita Scolacio. A proposito di antichità e dell’abbandono delle coste, più che di tachisismi dovremmo parlare dei bradisismi, ma di ciò un’altra volta. Nella seconda metà del XVI secolo iniziò una serie di violentissimi fenomeni tellurici e vulcanici che coinvolse tutta la fascia mediterranea. Ricordiamo solo le frequenti eruzioni dell’Etna, il risveglio del Vesuvio nel 1632, la distruzione di Lisbona del 1755. La Calabria venne colpita da più casi, finché nel 1638 un sisma calabrese fu così violento da suscitare emozioni e riflessioni persino teologiche. Ne scrissero Lutio d’Orso di Belcastro, il vescovo Agazio di Somma di Simeri e il gesuita Giulio Cesare Destito di Satriano, collegando l’evento con le eruzioni del Vesuvio. Tutto il XVII secolo mostrò sismi ora molto gravi ora meno ma continui. Devastante fu quello del 1693. Le cronache riferiscono di una condizione quasi quotidiana di allarmi in Catanzaro nel secolo seguente. Ed erano solo le avvisaglie dell’apocalisse. Come reagirono, i Calabresi di quei secoli, e con essi le autorità politiche e le comunità (il viceré, i presidi delle province, i sindaci dei Comuni, i feudatari, le ramificate gerarchie secolari e regolari della Chiesa, i corpi intermedi delle corporazioni e delle confraternite… ), è degno di ogni lode. Si mostrò un atteggiamento di grande compostezza e capacità organizzativa: i paesi vennero ogni volta ricostruiti; e gli abili mastri muratori escogitarono ingegnosi sistemi antisismici con l’uso del laterizio per attutire la rigidità della pietra: notatelo nelle vecchie case, o come opus incertum, cocci disseminati qua e là; o con tre file di mattoni pieni tra file di granito. Ci si dotò di baracche di legno, attrezzate alla meglio per consentire di vivere evitando il pericolo delle case: restano i toponimi Baracche, che il solito depresso pensa siano stati luoghi di miseria, e invece erano prova di efficienza e benessere. Nel 1652 il papa Innocenzo X, un uomo santo ma non ingenuo, e che da tempo aveva capito che la mostruosa proliferazione dei conventi non era dovuta a desiderio di Dio bensì a diserzione dalla zappa, emanò una bolla per la soppressione di quelli troppo piccoli, poveri e terremotati. Inutile dire che si scatenò il bailamme delle proteste (pare di sentirli: “Il convento non si tocca!”), accompagnate da attacchi e calunnie personali nei confronti dello stesso papa. Il quale se ne impipò, Dio lo remuneri. In Calabria ce n’erano un quattrocentocinquanta, numero al cui confronto paiono pochissime persino le trentadue UULLSS ai tempi del mangia mangia e dilagante assistenzialismo demosocialista della Prima repubblica; ne sparirono uno su tre. Non c’è penna che possa narrare il terremoto del 1783, con l’annientamento dell’intera Calabria centromeridionale. Infinito è il numero dei centri rasi al suolo, mentre crollarono le montagne, e si aprirono centinaia di stagni e laghi. Si contarono ventimila morti, senza dire delle epidemie che seguirono. Ma è più giusto e più degno ricordare come si affrontò il disastro. Re Ferdinando IV inviò immediati e rapidi soccorsi, affidando i pieni poteri al comandante militare principe di Cerchiara. Vennero erette baracche e tende per gli sfollati, si scavò tra le macerie ritrovando dei vivi dopo molti giorni; soprattutto, si pose mano a un radicale programma di ricostruzione, i cui effetti sono oggi ampiamente leggibili. La linea politica del governo borbonico fu, spesso, il trasferimento dei paesi piuttosto che la loro ricostruzione in sito: lo suggerivano criteri urbanistici e climatici, ma anche un’illuministica volontà di ricominciare, di tagliare radici. Castelmonardo divenne Filadelfia; Borgia, Oppido, Palmi, Delianuova, Cittanova e molti altri subirono il trasferimento; e così la nostra Soverato, lasciando il vecchio sito per Soverato Superiore. In verità la nostra ricostruzione fu un tantino caotica, raro esempio di disordine: ma chi studia i piani regolatori di quasi tutti i centri rinati, vi trova a pieno la razionalità della città romana derivata dai castra, con ampie piazze e strade. Abbiamo documenti di impressionante precisione e correttezza dei calcoli delle spese. In dieci anni il lavoro era finito. Le grandi catastrofi comportano anche sconvolgimenti sociali; la Calabria ne subì uno da cui non si è ancora del tutto ripresa. Ferdinando IV, per fare cassa e per favorire la formazione di unità agrarie, istituì la Cassa Sacra, che doveva vendere ai privati le terre di enti ecclesiastici non più vitali. Una meritevole iniziativa, ma ne beneficiarono poco i contadini e molto i borghesi, che si impadronirono facilmente e a basso prezzo di vastissime estensioni prima di fatto libere o in possesso a censi leggeri. Una volta divenuti latifondisti, questi medici e notai s’inventarono anche una falsa antichità genealogica e sposarono le figlie dei baroni poveri, e divennero quel ceto medio calabrese che riesce mostruosamente a coniugare il peggio degli avi contadini, la grettezza, senza il meglio, l’alacrità; e il peggio della nobiltà, cioè la spocchia, senza il meglio, cioè l’orgoglio. Pigri e superbi, i loro discendenti popolano i consigli, gli uffici e le scuole! Anche questo è frutto funesto dei terremoti. Che dire della perdita di opere d’arte, documenti, biblioteche! Poco si salvò, e, quel che è più grave, si affievolì la memoria storica. L’ultimo colpo lo danno i libri di testo, che nominano la Calabria solo per Magna Grecia, senza entrare nei particolari; e l’emigrazione. Dimenticavo, c’è anche la fucilazione di Murat, però non sognatevi di chiedere chi fu e perché gli spararono! Continuarono i terremoti nel XIX secolo, culminando con i due terribili eventi del 1905 e del 1908. Il secondo è certo tristemente più noto per la distruzione di due città; ma quello del 1905 fu di più ampio raggio: si vedono ancora delle vecchie case munite, dopo di allora, di robuste chiavarde di ferro. Magnifico esempio di ricostruzione, in età fascista, Messina e Reggio. L’ultimo sisma che si ricordi ebbe, nel 1947, epicentro a Isca. La profezia che prima o poi un gran terremoto separerà la Calabria dall’Italia speriamo sia come tutte le altre una bufala: siamo già separati a sufficienza per tutto il resto, almeno l’orografia resti qual è. Anche sulla Lacina, dicono i vecchi, c’è un vulcano dormiente ma vivo, e borbottano minacciosi: “Si si rivijjia u Cuscunà… ”. Crepi l’astrologo. Ulderico Nisticò
Per eventuali Commenti su questo articolo scrivere a: info@soveratoweb.it |
SoveratoWeb.Com - Il Portale di Informazione del Soveratese
|