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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Alamein
Le operazioni in Africa Settentrionale erano iniziate nell’estate del 1940 con l’attacco italiano dalla Libia all’Egitto, un Regno nominalmente indipendente ma di fatto controllato dalla Gran Bretagna. Dopo iniziali successi, una controffensiva britannica si spinse fino alla Tripolitania, arrestata dalla difesa italiana, cui si aggiunsero due divisioni corazzate tedesche comandate dal già celebre Rommel. Mussolini dovette rassegnarsi a chiedere aiuto costatando che l’esercito italiano, per quanto abbastanza adeguato alla guerra di fanteria, non lo era per mentalità alla guerra moderna: i generali italiani, come quelli francesi, erano rimasti al 1918, e credevano intimamente che i carri armati fossero dei cannoni sui cingoli, invece che, come sono, un’arma rivoluzionaria. Di fatto Rommel assunse il comando del grosso delle truppe italotedesche presenti in Africa, e riconquistò il territorio. Nel 1941 una nuova offensiva inglese minacciò la Cirenaica, ma venne respinta; e nella primavera – estate del 1942 i nostri giunsero a poche decine di chilometri da Alessandria d’Egitto. Si svolgeva intanto la grande battaglia dei mari, che, se da un punto di vista strettamente tattico si può dire vinta dalla Marina italiana, non annientò del tutto le navi inglesi, che continuarono a ostacolare i rifornimenti di carburante. Si discusse troppo a lungo se attaccare Malta, e la perdita di tempo si rivelò dannosissima; l’isola subì da parte degli aerei italiani e tedeschi bombardamenti più intensi di quelli di Londra, ma non cedette; e le navi inglesi, per quanto rimaste in poche, ottennero successi contro i nostri convogli. In Egitto il generale Montgomery applicava semplicemente la tattica di Wellington a Waterloo: resistere prima, stancare il nemico, contrattaccare al momento opportuno. Rommel, che era un grande tattico ma non uno stratega, avrebbe fatto meglio a ritirarsi; mentre gli Inglesi si rafforzavano con carri americani, e si giovavano della vicinanza ai rifornimenti. Quando scatenò l’offensiva, era tardi. Solo la divisione corazzata “Littorio” riuscì a passare a nord, mentre gli altri carri tedeschi e italiani venivano falcidiati dai campi minati. Quando Montgomery ritenne giunto il momento dell’attacco, ai nostri non rimase che un’eroica e vana difesa. La divisione paracadutisti “Folgore”, addestrata per prendere Malta e finita in fanteria nella sabbia, resistette fino all’ultimo uomo; la corazzata “Ariete”, circondata da forze soverchianti, lasciò memoria di sé questo vero poema epico dell’età moderna, un fonogramma degno di Omero: “Carri nemici fatta incursione est; con ciò Ariete accerchiata; carri Ariete combattono”. Erano rimasti in dieci su 250. La guerra continuò in Africa; le truppe italotedesche abbandonarono la Libia, ma occuparono Tunisia e Algeria, e combatterono contro gli Angloamericani fino alla primavera del 1943. Finiva così la guerra in Africa; seguirono lo sbarco in Sicilia, la caduta di Mussolini e l’8 settembre. Altra storia. Soverato fu presente anche ad Alamein. Traiamo da “Soverato nel pallone”, di Ulderico Nisticò e Tonino Fiorita: Baldassarre Sinopoli, Sarro, fu paracadutista nella Folgore. Atleta e soldato, Sarro incontrò la morte in combattimento. Dobbiamo la narrazione dell’evento alla lettera che inviò alla madre il commilitone Moranduzzo, di Firenze, datata 13 dicembre 1942. “Carissima signora, il giorno 25 novembre fui rimpatriato con la nave ospedale, ferito. Erano due mesi che non ricevevo notizie da nessuno. In questi giorni all’Ospedale di Napoli ricevetti la notizia che lì avevate scritto, e ora, trovandomi in convalescenza a Firenze, ho letto la vostra lettera. Per prima cosa vi dico che [...] voi siete la madre, ma la persona addolorata per la perdita di Sinopoli, sono io. Il giorno 4 settembre, data della sua gloriosa fine, mi trovavo a poche centinaia di metri da lui, ma non seppi e non ho potuto vedere, causa l’intensissimo fuoco, sopra le nostre posizioni, dall’artiglieria nemica. Era impossibile qualunque movimento. Il giorno dopo, 5, ricevemmo l’ordine di ripiegare e abbandonare il caposaldo, dato il grande pericolo che imminente correvamo tutti. Alla sera, pochi momenti prima di ritirarci, rimasi ferito[...][...][...] nella notte, un altro [...] seriamente dallo stesso colpo d’artiglieria che cagionò l’immediata morte del vostro povero Sarro. Vi riassumerò ora il racconto che mi fece: ‘Eravamo in cinque, intenti a discutere, allo scoperto, sul da farsi, un colpo, un sibilo, e tutti e cinque si sdraiarono in terra. Il colpo ci investì in pieno, tre morirono immediatamente, io ferito[...] Cercai di interessarmi, di poter sapere di più, ma nulla. Il ripiegamento fu fatto. Avrei desiderato poter vederlo, ma era impossibile avvicinarsi a quel luogo: era preso di mira da tutte le armi nemiche, e pure la grande volontà del cappellano di dargli sepoltura fu vana. In quegli stessi giorni il mio stato di salute... il dottore mi avviò alla base, cioè dove si trovavano i depositi di compagnia, e di là partii il giorno 21 settembre per l’ospedale. A tutti quelli che lo conoscevano cercai di sapere sempre di più: uno mi assicurò che poi poterono dargli sepoltura, e vi posero una croce di legno col nome e data di morte. All’ospedale pensavo molto a voi, signora. Sapevo il bene che portavate al vostro Sarro. Molte volte incominciavo a scrivervi, ma pensavo: e se lei non sa ancora nulla? Non vorrei essere io a recarle per primo questo dolore...” Qualche anno dopo il comandante della Folgore verrà a Soverato a rendere omaggio alla madre del Caduto. Al valoroso Sarro Soverato intitolerà, molto opportunamente, lo stadio comunale. Ulderico Nisticò
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