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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Riflessioni domenicali
Voglio ricordare, tra i calabresi della Marcia: Michele Bianchi, segretario del Partito e sostenitore della linea intransigente e rivoluzionaria, quadrunviro, ministro; Luigi Razza, ministro; Vito Casalinuovo, di S. Vito, console generale della Milizia e ufficiale d’ordinanza del duce a Salò, fucilato a Dongo. *** Il Consiglio regionale, con sospetta unanimità, ha deciso di mantenere le cinque province. Il governo Monti ha detto che delle proteste se ne frega, e speriamo non si cali le brache come in altre occasioni. Se così sarà, ci ritroveremo annessa la microprovincia di Vibo. Bene per Serra e dintorni, da sempre volti allo Ionio e che con Vibo hanno poco a che vedere. Ma urge riflettere sull’esigenza di un asse Soverato – Vibo per equilibrare quello Catanzaro – Lamezia: occorre perciò la strada, quella mitica strada con la quale ci pigliano in giro dagli anni 1960! Asse Soverato – Vibo non vuol dire che mi candidate un’altra volta Franco Bevilacqua, oppure io il giorno delle urne me lo passerò beato in campagna. O fortunati, tantum sua si bona norint, agricolae, dice Virgilio, che, sotto Augusto, non aveva il problema di votare. **** Onore al nostro cinquantesimo caduto in una guerra che non chiamano guerra, però si combatte e si muore, e nessuno capisce perché. Ma voglio riflettere qui solo sull’aspetto tecnico della vicenda. Quando ho svolto i miei sessanta servizi di guardia armata, munito di arcaico ma pur sempre fucile, e di baionetta, non eravamo in guerra con nessuno, e mi trovavo in un paciosa città; eppure l’ordine – ordine, non consiglio, suggerimento, pettegolezzo, regole d’ingaggio, tavola rotonda – l’ordine era, in caso di minaccia, intimare due volte altolà, la terza altolà fermo o sparo, e poi sparare a bersaglio: non vicino, nei pressi, sopra, sotto, ma a bersaglio, fosse esso un cane, un gatto o un uomo. Risultato del colpo, una settimana di licenza premio: buttala via! Ma se non avessi sparato, subito davanti al tribunale militare, il quale mi avrebbe spedito a Peschiera un bel po’ di anni. E allora, che facciamo? Facciamo che in Afghanistan i nostri soldati si comportino a Kabul esattamente come si voleva da me in quei tempi lontani a Pisa: visto un tizio sospetto, intimare due volte altolà, la terza altolà fermo o sparo, e poi sparare a bersaglio: non vicino, nei pressi, sopra, sotto, ma a bersaglio. Se colpiscono, una settimana di licenza premio; se non sparano, subito davanti al tribunale militare. Dove voglio arrivare con questi sofistici ragionamenti? Proprio davanti al tribunale militare; non io personalmente, ormai congedato, ma i nostri. Cerco di farmi capire meglio: attualmente, se sparano, c’è il rischio di finire incriminati da un giudice italiano, e magari condannati a risarcire i danni al taleb schioppettato. Non è un paradosso: i nostri due marò detenuti in India non sono stati trattati da soldati in azione, ma come se avessero agito da privati e di loro iniziativa. Ma lo ius gentium non obbedisce agli stessi principi dello ius civile; ovvero, i soldati, iniziata una guerra, non commettono mica violenza privata, se sparano al nemico, anzi sono colpevoli se non sparano; ma ciò accade solo se è stata dichiarata una guerra; se no, chi spara addosso a qualcuno, taleban compresi, lo fa in maniera illegale. Soluzione? Dichiariamo zona di guerra ogni territorio afghano occupato da truppe italiane, e, per esteso, l’intero Afghanistan: a questo punto, à la guerre comme à la guerre, e, visti da lontano i genuini o presunti nemici, si procede di conseguenza. C’è poi un’altra soluzione più logica e meno impegnativa: domandarci che ci stiamo a fare da quelle parti, e, scoperto che non c’è il benché minimo motivo e tanto meno utilità, riportare le truppe a casa. Ma se ci stiamo, stiamoci come si deve. *** La storia della Calabria è, purtroppo, segnata anche da devastanti terremoti. Non ci sono profeti biblici in mezzo a noi che possano decidere se un sisma colpirà o meno; ma ci sono e sistemi antisismici di costruzione, e organizzazione preventiva in caso di evento. Gli antichi, qui in Calabria, avevano cura e dell’une e dell’altra esigenza. Guardate, nei paesi, le vecchie case, costruite con la pietra alternata al laterizio (“stracu”, dal greco òstracon) o irregolare o a triplice fila, al fine di attutire l’urto sismico; e i paesi avevano spesso un’area fatta di baracche di legno dove trovare rifugio di fronte alla minaccia di terremoto. I piagnoni di professione, quando trovano un “rione Baracche”, subito sparano la bufala che erano arretratissimi e si viveva in capanne; e invece erano avanzatissimi. L’ultimo terremoto nella nostra zona fu il 1947, con epicentro Isca. Ulderico Nisticò
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