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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Invito personale
La prima è il mio genuino apprezzamento per la cittadinanza di San Sostene, e tutti gli altri amici, che hanno accettato di interpretare un testo complesso e del tutto nuovo rispetto alla consuetudine; gli spettatori giudicheranno del risultato, ma è dato sicuro il valore della socialità e l’amicizia che si sono creati in questi mesi di intenso lavoro, e che non finiranno dopo la rappresentazione. È questo il significato profondo delle manifestazioni popolari che, in tutto il mondo cattolico, si celebrano a Pasqua, e che sono all’origine stessa del teatro. Sono i Misteri medioevali, che, da Iacopone, sono stati messi per iscritto; e che in Calabria si chiamano “a traggedia”, o “pijjiata”. I fedeli, sotto l’aspetto antropologico, compiono un atto di identificazione con la Passione e la Resurrezione, qualcosa di più intimo e personale del semplice recitare: si diventa in qualche modo Fariseo, Pilato, Maddalena… e si compiono quegli atti che il popolo ben conosce dall’attento ascolto del “Passio”, lettura integrale degli avvenimenti. La Passione di Gesù e la Congiura di Catilina sono, dell’antichità, i due eventi che meglio conosciamo nei minuti particolari, e che ci consentono di ricostruire non solo e non tanto l’evento in sé, quanto la microstoria che ne fa da cornice; e che consente ogni arditezza teatrale, e l’inserimento di elementi di fantasia. Il quadro storico è quello di un territorio dominato da Roma, ma attraverso qualche autonomia: piccoli principati come quello di Erode; governo municipale di Gerusalemme in mano al sinedrio; qualche conato di rivolta subito stroncato; una situazione che appare abbastanza florida sotto l’aspetto economico ma fragile sotto quello politico; e un governatore incerto sul da farsi. La predicazione di Gesù, che pure non ha alcuna finalità politica (“il mio Regno non è di questo mondo”) e non è eversiva dal punto di vista sociale, mette in crisi i fondamenti del potere dei farisei, che consistevano in una religione giudaica fatta di minute regole. Ed è bene ribadire: la religione di cui stiamo parlando è il giudaismo formalistico, lontano anche dalla grandezza mistica e problematica dell’antico ebraismo. È questa che Gesù viene a sconvolgere; ma i farisei temono anche che un rinnovamento religioso, annunziato dall’accoglienza popolare a Gerusalemme, ponga a repentaglio i precari equilibri con Roma, e ne scateni qualche sanguinosa repressione come quella, cui accennano gli stessi Vangeli, di pochi mesi prima; o l’incerta vicenda di Barabba, che secondo alcuni è uno zelota, nazionalista ribelle; secondo altri solo un ladro. La linea dei farisei è ben riassunta nell’assunto “bisogna che un uomo solo muoia, affinché tutto il popolo viva”. Pilato, incapace di assolvere e di condannare, sceglie la linea più comoda: cedere alle pressioni dei farisei e di una folla istigata e mutevole. In mezzo a tutto questo, la figura più ambigua è Giuda detto Iscariota, qualunque cosa ciò significhi. Discepolo di Gesù, appare attento al denaro; si offre di consegnarlo ai farisei: non ci sarebbe bisogno di indicarlo, ben noto com’era; e forse il suo tradimento (letteralmente, “consegna”) consistette in una falsa testimonianza per poterlo arrestare. Di lui si dice che, tardivamente pentito, restituì i trenta denari, e si uccise impiccandosi. Il nostro dramma, il cui titolo è volutamente “Il pane di Giuda” ne fa una metafora dell’umanità sempre sospesa tra aspirazione del bene e fragilità del male, tra luce di vita e fiato di morte. L’originalità del dramma consiste nel fare di Giuda, né vivo né morto dopo duemila anni, il narratore della Passione. Nel racconto di Giuda, moltissime figure: Gesù Uomo e Dio; Maria Santissima, che, partecipando alla Passione, diviene, come il Figlio, Corredentrice, tramite tra l’umanità e Dio; la Maddalena, cui Gesù perdona ma a patto che non pecchi più, e perciò non la giustifica, solo le dà una nuova speranza; Belzebub e i suoi complici Diavolo Inganno e Femmina; i discepoli e Pietro, non ancora esaltati dallo Spirito Santo, e perciò uomini deboli e sfiduciati; l’indeciso Pilato; il serio Volturcio; il travagliato Longino; i soldati romani che eseguono gli ordini, ma si sentono disonorati da un compito di carnefice; i farisei prigionieri del loro pesante ruolo; Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, amici di Gesù senza molto coraggio… e il popolo, i soldati… Il pregio della coralità non è solo sociale, ma anche artistico. In questo tipo di drammi da rappresentare in piazza, la recitazione è collettiva, con qualche momento monodico; e contano molto i movimenti, la musica, l’interazione tra attori e luogo. E questa è la tecnica squisitissima di regia di Tonino Pittelli, cui si aggiungono preziosi collaboratori di scenografia. È stata scelta l’ambientazione naturale della Matrice e della piazza, secondo un modello che abbiamo già sperimentato con “Resurrexit”, “Eutimo”, “Ecce Homo”, “Soverato 1521”. La chiesa di Santa Maria del Monte, un antico castello, è imponente ed elegante, e offre, con la piazza e le case intorno, utili spunti scenografia; e attira l’attenzione sul patrimonio storico di San Sostene. Il testo si presta a molti livelli di lettura: l’uso della lingua italiana contemporanea lo rende comprensibile a tutti; il tono e la scelta delle parole sono adeguati alla solennità e tragicità dell’argomento; le figure assurgono tutte per un momento alla dignità di protagonista; si contengono, per chi vuole approfondire, messaggi di interpretazione storiografica e umana. Si aspettano giudizi e commenti: s’intende, da chi verrà a vedere il lavoro. Astenersi perdigiorno generici.Ulderico Nisticò
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