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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Archeologia industriale nel territorio
Senza cadere nel pascolo di bufale che va di moda presso certi sparuti meridionalisti della domenica, e ricordando ancora una volta che, nel 1860, in tutta Italia, da Torino a Palermo, c’erano meno fabbriche che nella sola Manchester, e perciò lasciate perdere tutti i sogni di gloria retroattiva, è vero altresì che la Calabria fu una terra industriale da quando Mentore andava a Temesa per il bronzo (Odissea, I) fino alla fine dell’Ottocento, con una ripresa durante il fascismo; e solo vent’anni fa sono stati smantellati i complessi di Vibo e Crotone… mettendo al loro posto le province: e non so se devo più piangere o più ridere! Nei secoli XVI e XVII, gran parte della terra coltivabile era destinata al gelso per il baco e la produzione della seta, lavorata in più luoghi e soprattutto a Catanzaro. Qui restano toponimi come Filanda, Fondachello; e qualche traccia di edifici. Prima del vapore, l’energia più sfruttata era quella dell’acqua. Il nostro territorio è costellato di acquari e “saitte” che alimentavano mulini e altri opifici, tra cui le “vottandere”, gualchiere per lavorare la dura ginestra e farne tessuti robusti e da fatica. “A sita è cumparenza, a janostra è sustanza”, dice il proverbio. Ricordo i mulini di Montauro, quelli di Squillace, di San Vito, di Petrizzi, Torre, Cardinale, Davoli, Satriano, Badolato… occorrerebbe almeno una catalogazione ragionata. Più recenti, i mulini e frantoi meccanici. Ne restano memorie visibili a Soverato Superiore; e un gran numero di macchine alla Roccelletta, con il marchio “Armida Soverato”: altri tempi. A Stilo sono segnalate ferriere in età medioevale; si usava il carbone di legna, e quando le risorse dei boschi locali si esaurirono, le attività vennero trasferite sempre più in alto (c’è chi pensa che Pazzano significhi plateaum, miniera), infine sulla montagna, dove, tra Cropani e San Nicola, un villaggio prese il nome di Mongiana. Le ferriere dei Lamberti fucinarono i tubi dell’Acquedotto carolino, che alimenta le fontane della Reggia di Caserta. La Regia Fonderia di Mongiana visse e prosperò dagli ultimi decenni del XVIII secolo al 1860; finì in mano al garibaldino Fazzari, che tentò di rimetterla in sesto, poi la svendette. Restano, malinconiche memorie, la fonderia e la fabbrica, questa malamente restaurata negli anni 1980. Quanto ai prodotti, due fucili sono conservati nel Museo diocesano di Squillace; un busto di Ferdinando II è a S. Andrea, uno a Locri, uno al Museo militare di Catanzaro. Sono visibili le miniere di ferro di Bivongi. La Ferdinandea, proprietà personale del re, ospitava una piccola fonderia: restano gli edifici. La Razzona di Cardinale, dove emersero segni dell’industria neolitica, era una segheria idraulica (“a serra e l’acqua”). Carlo Filangieri, principe di Satriano duca di Cardinale, vi aprì una ferriera. Vi si fusero i pezzi poi messi in opera sul Garigliano, oggi in agro di Minturno, primo ponte di ferro d’Italia; e poi quello sul Calore. Difficoltà di gestione, debiti del principe e un’alluvione portarono alla fine l’esperienza. Restano però molti edifici, che dovrebbero essere salvati dal degrado. La ceramica in tutte le sue forme è stata, per così dire, la plastica dei millenni scorsi; la lavoravano i singoli artigiani, e vere fabbriche di mattoni erano le “carcare”; si può ammirarne, in parte, una in Marina di S. Andrea. Nella memoria storica recente hanno posto gli attracchi che, tra XVIII secolo e la prima metà del XIX, erano frequenti. Un pontile di legno venne gettato verso gli anni 1930 a Soverato; e qualche tempo dopo, uno di cemento. L’incostanza della linea costiera li ha coperti entrambi; un palo era emerso durante una mareggiata, ma diciamo che non si sa che fine fece. Ricca d’acque, la Calabria apparve naturalmente vocata alla produzione di energia idroelettrica. Tra le più antiche centrali oggi abbandonate, quelle di Bivongi, del Callipari, di Sersale. Miniere di caolino erano a Olivadi. La miniera di quarzo di Davoli, il cui ingresso è ancora visibile sulla provinciale, riforniva l’industria di Soverato: è quel grande edificio di mattoni pieni che oggi fa triste mostra di abbandono sul Lungomare. I vecchi soveratani lo chiamiamo Quarzo; i meno vecchi, COMAC; oggi non ha nemmeno un nome. Infiniti oggetti della produzione industriale antica andarono perduti; ma il convento di Chiaravalle ne custodisce molti; e così il neonato Museo di Simbario. E sicuramente ho dimenticato qualcosa.Ulderico Nisticò
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