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Nell’ambito
della tre giorni “Ex reconditis Claravallis relucet” (28, 29, 30 giugno), il
sabato sarà occupato dalla rappresentazione di “Presidio di fede”, dramma
storico di UN per la regia di Tonino Pittelli. Ne parlo ora qui perché, tra
storia e mia immaginazione, protagonista è quel fra Giacomo da Soverato del
XVI secolo di cui la città dovrebbe ricordarsi, e invece giace nell’oblio.
Fosse lo sbarco di Ulisse in montagna o qualche altra pari e peggiore
bufala, tutti a saltare di gioia. Tenterò io di restituirgli un po’ di
immagine.
Una premessa. Nella mia edizione critica della
Calabria Illustrata di padre Giovanni Fiore da Cropani (XVII secolo),
uscita in tre volumi per la Rubbettino e il Credito Centro Calabria nel
1999, 2000 e 2001, nel II tomo, si leggono molte centinaia di vite di monaci
e secolari che dovevano essere avviati alla canonizzazione, e nessuno dei
quali fu canonizzato mai perché quelle vite sono palesemente o un genere
letterario e praticamente tutte uguali, o zeppe di inverosimiglianze; e i
vescovi del tempo, tomistici e tridentini, cestinavano senza pietà. Io, che
le dovetti leggere per pubblicarle, mi formai subito l’evidenza che si
trattava di pii racconti infondati, e spesso senza alcun dato biografico.
Quando arrivai al nostro fra Giacomo, l’impressione fu del tutto diversa: il
tono era serio, con scarso peso a miracoli e prodigi, e si insisteva
soprattutto sugli aspetti culturali e operativi del nostro. Riporto qui il
lemma:
Fra Giacomo da Soverato fino da fanciullo dimostrò
quanto esser dovea singolare nella virtù; poiché, oltre ad una gravità
non corrispondente all’età, uscito dalla scuola correa di subito in
chiesa a servir Messe, o veramente ad orare. Cresciuto negli anni,
frequentò li Sagramenti, e, profittatosi molto nelle umane lettere, aprì
scuola di quella professione. Mangiava il pane a misura, ed alle volte
ripostolo con segretezza da parte, lo ripartiva poi a’ poveri. Con
queste virtù stimolato dal Signore a più alto grado, vestì l’abito de’
Cappuccini, e, fatta la professione, applicato a’ studi delle
filosofiche e teologiche discipline sotto fra Giovannello da Terranova,
e poi in Roma sotto fra Girolamo da Pistoia, divenne singolar
predicatore del suo tempo, ed anche lettore [docente universitario]
dell’una e dell’altra facoltà. Quindi, assaggiata la sua virtù da’ pp.,
l’anno 1571 venne eletto in diffinitore, poi provinciale qui ed in
Napoli, e finalmente diffinitor generale; ne’ quali uffici si diportò
con tal moderazione d’animo, che non fu veduto superiore di lui più
piacevole. Se alcuna si fusse rallegrato con esso lui della dignità
ricevuta, tosto ne piangeva tanto dirottamente che provocava le lagrime
de’ circostanti. Aborriva la mormorazione, quantunque leggiera, di
qualunque persona, singolarmente delle defunte. Predicava con apostolico
fervore, onde, sermoneggiando della Passione, recava molte lagrime agli
uditori, e grande spavento sermoneggiando o del giudizio o dell’Inferno,
ch’era molto frequente. Tanto innamorato dell’orazione, che fra giorno e
notte vi spendeva 10 e 12 ore, e molte volte con rapimenti de’ sensi e
con estasi. Entrato nella grotta di Gierace, ch’è nell’orto, per orare,
fu osservato da un gentiluomo suo famigliare, per nome Ferrante Sacco,
quale standogli a fronte, senza accorgerserve l’uomo di Dio, lo vidde
ora genuflesso, ora prostrato, ora in piedi con le mani incrocicchiate,
piangendo ed esclamando. Vidde poi uscir dalla grotta un gran splendore,
qual vi durò per più tempo. Fu anche veduto dal medesimo elevato da
terra due palmi, ed altre volte dal vicario foraneo in Fiumara,
predicandovi la Quaresima. Nel mentre studiava in Roma, un tal
gentiluomo mandò dal guardiano, priegandolo mandasse un sacerdote ad
esorcizzare una sua figliuola travagliata dallo spirito [indemoniata]: e
fu destinato fra Giacomo, il quale, quantunque da principio recusasse
per non andarvi, alla fine v’andò, costretto dall’ubbidienza. Gionto,
così favellò allo spirito: ‘Io son venuto qui non di mia elezione, ma
forzato dall’ubbidienza: conviene dunque che anche tu ubbidischi con
uscire’, e di subito partì. Predicando nella Grotteria, e concorrendo
molti poverelli alla sua casa a chieder l’elemosina, una volta non
avendo che darli, impose al compagno che ito vedesse di provederli.
Sapeva l’altro non esservi cosa alcuna, nientemeno, andato vi trovò
molti pani freschi e caldi, co’ quali sovvenne quei meschini. Col segno
della Croce risanò due infermi, e riunì un cristallo rotto in più pezzi.
Ritornando da Roma dal capitolo generale, e fermatosi in Napoli per
l’occasione della predica, s’infermò gravemente, e conoscendo che il
Signore lo chiamava a sé, lasciato il pulpito, si condusse in convento,
ove, munito colli Sagramenti della Chiesa, nudo in terra [come s.
Francesco] spirò l’anima sua felice l’anno 1594.
Quello di Giacomo è il nome in religione, e ci spiace
non sapere quello di nascita e il cognome; ma leggiamo con nostro stupore,
nostro ma non degli antichi, che prima della monacazione frequentasse una
scuola a Soverato e ne aprisse poi una sua. Altro che selvaggi e poveracci!
La carriera di fra Giacomo è squisitamente
intellettuale: predicatore e docente, esorcista, lo troviamo padre
provinciale tre volte: 1562, 1568, 1581; provinciale a Napoli; diffinitore
generale, uno dei tre dirigenti dell’intero Ordine. Morì lo stesso anno in
cui Reggio, la costa ionica e Soverato vennero devastate da un’incursione
dei Turchi del rinnegato Cicala; ma viveva a Napoli.
I Cappuccini lo ricordano ancora tra le loro glorie, e
ne conservano un ritratto “ufficiale”. Soverato gli ha dedicato una viuzza a
stento. Supplisce la poesia, e lo abbiamo in qualche modo cantato in
“Soverato 1521”; e ora lo esaltiamo in questo dramma in Chiaravalle. Ora
non ditemi che non l’avete saputo.Ulderico Nisticò
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