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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Tamarro
Tamarru è una parola dialettale calabrese che significa plebeo, ma sempre con l’accezione di ineducato, rozzo, selvaggio, violento. Non ha a che vedere con la condizione economica e sociale, ma con lo stile di vita e comportamento ritenuti poco civili, poco eleganti. Perciò s’intende anche contadino, per la solita ingiustizia dei cittadini che se la pigliano con i campagnoli, che troviamo nel greco antico agroikòs, nell’italiano villano, nel francese paysan; e il romanesco burino da buris, manico dell’aratro: un’ideologia che, finita nelle antologie della Media, tante rovine causò alle anime e all’economia della Calabria, ed è da respingere a pedatoni d’urgenza. Tamarru si oppone a borgisi, il proprietario terriero che però vive in paese. Si dice che derivi dall’arabo tamar, venditore di datteri; ma la cosa mi ha sempre convinto poco: perché mai un commerciante di bacche di palma dovrebbe essere rustico e maleducato? Ed ecco che arriva una possibile e più convincente etimologia attraverso le cronache della più o meno genuina rivolta egiziana di quest’estate 2013: c’è un movimento che si chiama tamarrod, e significa a quanto pare ribelli. Credo sia un singolare, perché il plurale dovrebbe essere tamarrodin come bedua, beduin, ma è ovvio che se la parola è arrivata a noi in arabo, mica si andava tanto per il sottile con la grammatica. Sono “tamarri”, questi ribelli, più tamarri di un povero bancarellaro. Ricordo poi che, un venti anni fa, la parola tamarro passò in un certo gergo giovanile di periferia anche fuori della Calabria; ma non ebbe lunga fortuna, come tutte le cose calabresi che si rispettino. Ulderico Nisticò
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