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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Industrie che furono
Il complesso siderurgico di Mongiana ci fu davvero: non era Lione, la Krupp, Pittsburgh, ma non sfigurava di fronte a nessuna fabbrica di un’Italia in cui, con buona pace di Pino Aprile e altri, c’erano nel 1860 meno ciminiere che nella sola inglese Manchester. Deriva da antiche fucine di Stilo, poi trasferite man mano che si esaurivano i boschi, e, verso la fine del XVIII secolo, giunte a San Nicola e Cropani, allora territorio di Castelvetere (nel 1863 indebitamente Caulonia). Potenziata sotto Murat, Mongiana prosperò sotto i Borbone, producendo oggetti vari di ferro, tra cui armi. Chiusa dal governo unitario, venne venduta al garibaldino Fazzari, e ancora fino al 1880 campava a stento: l’esercito usava un fucile Mongiana; poi chiuse e tanti saluti. Come tutte le imprese di Stato della storia (i nostri anni 1970-2000 insegnano) visse e morì secondo l’intervento o meno dello Stato. La cosa più bella di Mongiana sono le case degli operai, se uno confronta come venivano trattati i lavoratori nel Regno delle Due Sicilie con il bestiale comportamento dei capitalisti inglesi e francesi (la letteratura ne è piena), e il canagliesco sfruttamento in Piemonte da cui salvò i suoi giovani don Bosco. La fabbrica di Mongiana era un rudere quando, negli anni 1990, fecero quello che secondo loro era un restauro, in realtà è un rifacimento fuori dal contesto storico. Ma almeno non cade. Una piccola fonderia, in dislocato territorio di Stilo, era di proprietà privata del re, e prendeva il nome di Ferdinandea, con un’elegante villa. Giace in abbandono, mentre sarebbe una simpatica attrattiva turistica. Altra storia, la Razzona. Castelletto dei Ravaschieri, passò, con i titoli puramente nominale di principe di Satriano e duca di Cardinale a Carlo Filangieri nel 1817; valente militare, uomo colto e intraprendente, trasformò la vecchia segheria idraulica (a serr’e l’acqua) in una fonderia: vi vennero fusi i componenti del primo ponte di ferro d’Italia, quello sul Garigliano, che si può ammirare oggi a Minturno. Filangieri, dopo la riconquista della Sicilia (1849) venne ricompensato con il titolo, anch’esso nominale, di duca di Taormina, e basta; mentre come luogotenente spendeva del suo per accattivarsi la nobiltà insulare, e s’indebitò. L’alluvione del 1851 fece il resto, e Razzona chiuse; Filangieri la offrì ad alcuni creditori suoi vassalli, e uno di loro la comprò; i boschi cambiarono mano, gli edifici sono esposti ad acqua e vento. Se ne potrebbe fare un paese albergo con centinaia di posti letto. Le scomode leggi del Regno riservavano il ferro locale solo alle fabbriche di Stato. Se ne ricavava nelle miniere di Bivongi e Pazzano, ancora visibili; nel 1846 Ferdinando II sbarcò a Siderno e si recò a dorso di somiere a inaugurare la miniera di Agnana. Miniere di caolino e altro si trovano in agro di Olivadi. Mancava purtroppo il carbone, e quello di legna non aveva la stessa energia del fossile. Ancora verso il 1880 la Calabria era definita ufficialmente “regione ad alta densità industriale”, s’intende (a scanso di ubriachezze vanagloriose) rispetto all’Italia dell’epoca. Tutto svanì per cattiva volontà dei governi e per la radicale inettitudine della borghesia calabrese, tanto più ignorante quanto più laureata, allora e ancora, anzi di più oggi. L’industrializzazione riprese sotto il fascismo, con i poli di Crotone e Vibo, poi smantellati in cambio delle microscopiche e cachettiche province, cioè pennacchio sulle targhe. A Soverato sorse nel 1937 il Quarzo, di cui abbiamo più volte parlato e proposto la riutilizzazione. Ma i politici, perché si sentano punti e reagiscano, bisogna toccarli nelle candidature!Ulderico Nisticò
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