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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Ulisse, Ulisse ad Amaroni
Si può fare arte di ottimo livello senza quella greve e pedante seriosità che ammorba gli intellettuali ufficiali calabresi, e li consegna alla depressione vera o recitata o mista; e senza per forza passare soldi a forestieri più o meno illustri e più o meno furbetti. Bastano alcune condizioni: che l’autore, nel caso dell’Odissea, conosca il greco; che il medesimo conosca l’italiano non come lingua straniera; che chi recita sappia recitare; chi danza, danzare; chi suona, suonare… Insomma, ci vuole la qualità. Perché Ulisse? Ma perché egli, senza minimamente mai essere esistito né aver mai messo piede in Calabria tirrenica o ionica o di montagna, è una figura universale della poesia. Povero e astuto già nell’Iliade, nell’Odissea mostra di essere il momento di passaggio dall’età degli eroi all’età degli uomini, e perciò mostra un animo combattuto, malinconico. Di lui il poeta dice “diàndikha mermèrixe”, pensò diviso in due parti, separato, dicotomico, logico, riflessioni e dunque infelice qualunque cosa faccia; e lo chiama “polytlas”, che molto sopporta. Quando incontra Nausicaa affronta la scelta tra tornare in patria, che è degli uomini, o restare tra i Feaci e sognare una nuova felicità che sente impossibile, che è fuori dal suo tempo e dalla sua età e condizione, e che non lo libererebbe mai dallo scrupolo di una decisione trasgressiva. Un eroe non esiterebbe, Ulisse esita sempre. Nausicaa è la bambina che sta diventando donna, ed è abbastanza sfacciata per mostrare l’amore e abbastanza pudica per fingere di non amare. Lo sa anche lei che non potrà amare Ulisse, e se lo amasse non sarebbe quello che sogna. Credo che ogni uomo e ogni donna almeno una volta nella vita abbiano dovuto patire di simili scissioni del cuore. Voglio donare ai lettori sensibili e colti un poco del mio lavoro di Amaroni, il lamento di Nausicaa. O pianto, o pena del cuore, o dolci disperati singhiozzi, o sorte d’incontri e di addii, e d’impossibili amori. Se fosse mai costui un uomo quieto, un giovane a modo tra molti, e non lo travolgesse il destino di essere e uomo ed eroe, e a volte più fiero di un dio, e a volte bisognoso di pace. Io, figlia di re, bella e amabile, io ricca di vastissima dote, io per cui corrono a gara i figli dei re delle isole, io tutto lascerei e dote e isole e re e la mia reggia di marmo e la nobiltà e la bellezza e la giovinezza serena e l’essere la palma di Delo e la più ammirata tra tutte, se mai con quest’uomo potessi condurre la mia vita nei campi, le mani segnate dall’erba, il volto rugoso di sole, le vesti tessute da me con la tagliente ginestra, con lana di povere pecore, con lino da battere a manna, e sempre temere le nuvole, che non ci riversino grandine, o non ci dissecchi le fonti la troppa vampa dell’astro; ah, mille volte felice, se fossi io con lui così povera. Un giorno, io regina di popoli, io venerata da sposo, io circondata da figli e figlie dal seno incipiente, diranno di me “Te beata, o Nausicaa possente”, e forse un poeta pagato suonerà lodi sull’arpa, e intorno danzeranno le ancelle: “Beata, Nausicaa, beata”. Non sanno l’oscura mia pena, la spina del ramo di rose, la nostalgia di quest’uomo. Che se ne vada lontano, che vive felice tra i suoi, se lo riprenda la sposa! E se potessi mai odiarlo, desiderarne lo strazio, e che tornasse il Ciclope o gli altri temerari ladroni, e il dio Poseidone violento scuotesse le antenne e la nave, e affondi e l’Ade lo accolga! Ah, se mai potessi scordarlo! Ma questa è la mia fievole pena, che ne conservi l’amore. Ulderico Nisticò
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