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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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LEZIONCINA DI STORIA MONTAURESE
Città, nel Medioevo e fino alle riforme napoleoniche, è un luogo dove c’è un vescovo; se no, si chiama con lo strano nome di “terra”. Altro discorso la personalità giuridica, detta nel Regno universitas, e riservata a pochi luoghi, gli altri essendo solo casali. Città vescovile e universitas era Squillace, mente erano casali gli attuali comuni di Borgia, S. Floro, S. Elia (Vallefiorita), Palermiti, Centrache, Cenadi, Olivadi, S. Vito, Montepaone, Montauro, Gasperina, Stalettì. Tutto ciò nulla ha a che vedere con la vanagloria locale e il bisogno piccolissimo borghese di un nonno barone, e non sminuisce o accresce la storia di un luogo, se una storia c’è. Montauro compare la prima volta nell’atto notarile del 1243 che si trova nel Trinchera, è stato pubblicato dal Voci e ne feci io un’edizione critica ampiamente commentata su Vivarium Scyllacense: purtroppo è in greco, e anche molto scorretto, ma c’è una mia traduzione. La forma è scritta (traslittero) Mentabrion, da leggere Mentavrion o Mentaurion, vicino alla voce dialettale. Il monte d’oro è invenzione di qualche altro bufalaro, ma dei secoli passati. Non ricorda Montauro l’Anania (leggete la mia edizione, Rubbettino 2005); ne accenna il Fiore (leggete la mia edizione, Rubbettino 1999), in una con Gasperina… senza mai farsi venire l’uzzolo di chiamarla città, ma solo, com’era, un casale di Squillace. Ciò non inficia che il borgo sia bello, mostri splendidi portali, mulini, e custodisca veri gioielli d’arte in S. Panteleone; e una grangia della Certosa, nella forma attuale del XVI secolo; e un mistero vero, il Sangue del Santo. Il resto, beh, non scherziamo… Mi verrebbe qui una vecchia battuta, ma poi qualcuno mi querela come quando dissi che mi aveva plagiato, e la querela fece la fine degli Annali di Vatinio secondo Catullo, servì a incartare i pesci: tunicas laxis sgombris. È latino, non lingua templare flambée. Montauro sta bene come sta. Non c’è bisogno di sbagliare di 500 km i meridiani e i paralleli, e scomodare cavalieri francesi arrostiti e preti mezzi matti dei Pirenei, e titoli di città e di impero, meri frutti del provincialismo calabro, e che, di bovina longobarda in bovina longobarda, ci portano allo sbarco di Ulisse a Tiriolo e reimbarco a Casciolino, e Omero di Reggio, e, ovviamente, il nonno era barone. Fo todos barones, disse Carlo V. Le autonomie comunali calabresi (un atto dissennato e fonte di secolare corruzione, ma ve lo spiego un’altra volta) risalgono quasi tutte al periodo dell’occupazione francese, alcune al 1807, altre, come quella di Montauro, al 1811. Lo attesta Gustavo Valente, della cui autorità di storico spero non voglia dubitare nessuno, e tanto meno il primo venuto. Autonomia comunale, e basta: il titolo di città Montauro, con tutto il rispetto per Montauro, non lo ebbe nel 1243, non lo ebbe nel 1787, non lo è ebbe nel 1811, e non lo ha tuttora; e, a dire la verità, nemmeno lo ha chiesto mai se non nei sogni di chi magari capita trovi un documento, ma resta da vedere se lo interpreta correttamente. Per esempio, il documento del 1243 di cui sopra non lo saprebbe leggere di certo né nel testo greco originale né nella traduzione latina del Trinchera: beh, c’è quella italiana mia, magari. Postscriptum uno: in caso di querela, chiederò un esame pubblico di latino e greco del querelante, con ripresa televisiva. “Storico” avvisato, mezzo salvato. Postscriptum due: se il sindaco ha invitato non altri ma me a parlare di storia di Montauro, e così fece Caligiuri quando venne Giacobbo, l’escluso se la prenda con l’assessore regionale e con Procopio, mica con me: quelli lo hanno chiesto a me, non io a loro. Postscriptum tre: hic Rhodus, hic salta. Fuori le prove. Ulderico Nisticò PAGINA
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