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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Giacobini e carbonari
Napoleone conquistò tre volte l’Italia: nel 1796 come generale, nel 1800 come primo console, nel 1806 come imperatore. Falliti diversi altri tentativi, organizzò così la Penisola: Torino, Genova, Firenze e la stessa Roma, poi la Dalmazia, vennero direttamente annesse alla Francia: per curiosità, sappiate che Mazzini, Garibaldi e Cavour nacquero francesi! Milano, Venezia, Trento, Bologna e le Marche costituirono un Regno d’Italia, il cui re, eletto all’unanimità di un voto, il suo, fu Napoleone e viceré il figliastro; nel 1806 creò re di Napoli il fratello Giuseppe, due anni dopo lo trasferì re di Spagna, e, rispettoso dei trattati del 1737 e dell’identità politica secolare del Meridione, creò re Gioacchino Murat suo cognato. Anche lo “spirito assoluto a cavallo” teneva famiglia, famiglia numerosa e vorace! Quando Giuseppe fu informato che diventava re di Napoli si trovava a Baiona nella spagnola Galizia, e lì si affrettò a concedere al suo nuovo Regno una costituzione, sempre chiamata appunto di Baiona; chiamata e basta, perché non ne applicò manco una virgola, e Napoli, come Milano e Parigi eccetera, vennero governate secondo i criteri della monarchia militare. Lo stesso fece Murat, lasciando la costituzione un francesissimo chiffon de papier. Intanto la Calabria era in guerra, e non per la costituzione borghese, ma per il re Borbone. Avvenne sul più bello un fatto sorprendente. Ferdinando, che restava a Palermo senza che i Francesi potessero attaccarlo per la protezione della flotta inglese, fu costretto, nel 1812, a concedere al suo Regno insulare una costituzione, che, in qualche modo, cominciò a funzionare davvero. Situazione paradossale: quelli di “libertà, uguaglianza e fraternità” apparivano feroci tiranni; e il re Borbone un mite monarca costituzionale. Nel Meridione continentale sorse una setta, che prese il nome convenzionale di Carboneria, propugnando una costituzione; e credo che, in presenza di questa, si sarebbero tenuti anche Murat; se no, stava bene loro Ferdinando. La repressione del macellaio Manhès, già ferocissima contro gli insorti borbonici, si rivolse contro i carbonari. Episodi simili avvennero in Abruzzo, dove Murat inviò Florestano Pepe. Un corollario sull’unità d’Italia. Nel 1815 Murat, dopo due anni di complicate giravolte, mosse guerra all’Austria. Giunto in Romagna, emanò un Proclama di Rimini invitando gli Italiani all’insurrezione nazionale; non se lo filò nessuno, tranne un poeta milanese già abbastanza noto, il Manzoni, che iniziò un Inno e non lo finì perché nel frattempo il neoitaliano Murat era stato sconfitto a Tolentino da un generale austriaco che si chiamava Bianchi: la torre di Babele! Un giovanissimo letterato, molto tempo dopo assai celebre, e che viveva da quelle parti scrisse una fluviale Orazione per la liberazione del Piceno. Era Giacomo Leopardi, e la liberazione era la cacciata di Murat con i suoi “barbari Sanniti”, cioè i Napoletani. Alla faccia dell’Italia unita. Ferdinando, per poter ritirare la costituzione anche alla Sicilia, creò nel 1816 il Regno delle Due Sicilie, Stato assoluto; Murat, follemente sbarcato a Pizzo, era stato fucilato il 13 ottobre. Napoleone, battuto a Waterloo, era da quattro mesi prigioniero a Sant’Elena. La storia delle costituzioni napoletane è troppo lunga per narrarla ora. Alla prossima. Ulderico Nisticò
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