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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò |
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Glorie e morte della seta di Catanzaro
È da ritenere che i paramenti sacri fossero tra le produzioni più richieste, donde il rapporto con Napoli e con Roma. Ancora alla fine del XIX secolo a Firenze campeggiava un’insegna con “Qui si vende la vera seta di Catanzaro”. Ma nel frattempo l’arte era in lenta decadenza, probabilmente per l’atavica incapacità meridionale di ammodernarsi nelle tecniche e nelle tipologie di produzione: gretto e becero conservatorismo che nessuno osi chiamare tradizione. La seta settentrionale, più modesta e a minor costo, aveva mercato più ampio: insomma, ci hanno rovinati Renzo e Lucia quando a Bergamo comprarono un filatoio! I gelsi, sempre più inutili, vennero espiantati a favore degli ulivi, che i disinformati pensano siano quelli della Magna Grecia. La Calabria si coprì di uliveti, ma non per olio da cucina – il nostro condimento è il grasso di maiale – olio di pessima qualità, tanto meglio quanto peggio, perché da bruciare, lampante, ojjiu da lampa. Se ne produceva tantissimo (riflettete sull’espressione “ndava olivari!”, quantità, non qualità), e lo compravano mercanti inglesi e olandesi per l’incipiente industria. Era una specie di petrolio dell’emiro di qualche posto arabo, che i petrolieri comprano a due soldi; l’emiro crede di aver fatto un affare perché gli passano dollari, lussi inutili e qualche donnetta bionda; il popolo non ne trae alcun vantaggio. Così fu da noi nei secoli XVIII e XIX, e ancora fino a poco fa: i proprietari, in genere plebei di recente arricchimento, intascavano qualche soldo subito, l’economia della Calabria andava in malora. Bisogna studiare il passato della seta calabrese; ma bisognerebbe riprenderla, ovviamente come nel 2013 quasi 14. Per favore, non ditemi che ho ragione: lo so da me; e tanto meno che mi tenete in “grande considerazione”. Proviamo a fare qualcosa?Ulderico Nisticò
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